di Paolo Ciofi.

Sostiene Emanuele Macaluso che sarebbe necessario rilanciare, in Italia e in Europa, una nuova idea di socialismo: quei valori del «socialismo democratico con i quali si è costituito lo stato sociale», «che dovrebbero essere rielaborati e riproposti in rapporto al mondo di oggi». E a sostegno della sua tesi cita le recenti elezioni americane, nelle quali chi si è presentato come socialista mettendo al centro la costruzione del welfare-state e la condanna del razzismo - soprattutto diverse giovani donne - non ha impaurito nessuno e anzi ha guadagnato consensi ai democratici.
 
Andiamo a vedere. Il riferimento agli Stati Uniti, dove il welfare-state e un movimento operaio politicamente organizzato, libero e autonomo, non sono mai esistiti, va preso con le molle. Ma è sacrosanta l’esigenza di tornare a riflettere sul socialismo, vale a dire su un diverso assetto della società, dopo oltre un quarto di secolo di dominio assoluto del capitale durante il quale l’organizzazione e la rappresentanza politica del mondo del lavoro è stata azzerata, e lo stato sociale ridotto ai minimi i termini.
 
Se in Italia e in Europa si ripropone il tema del socialismo, allora non ha fondamento ritenere - come osserva lo stesso Macaluso - che il Pd possa diventare il veicolo di un tale ripensamento. Un nuovo socialismo che dia forma a una più elevata civiltà non si può infatti costruire con una visione che considera il capitalismo l’approdo definitivo della storia, e in assenza di un partito politico della classe lavoratrice del nostro tempo.
 
Si tratta di porsi all’altezza delle gigantesche trasformazioni del capitalismo del nuovo secolo, che in presenza di una rivoluzione scientifica e tecnologica in grado di assicurare a tutti e a tutte una vita libera e dignitosa diffonde invece ovunque nuove forme di sfruttamento degli esseri umani e della natura, continue tensioni e guerre, e con i mutamenti climatici mette in discussione l’esistenza stessa del pianeta. In queste condizioni l’obiettivo non può essere il ritorno al passato, vale a dire salvare il capitalismo, come sosteneva Alfredo Reichlin, ma appunto ripensare il socialismo, una civiltà meno primitiva e più avanzata.
 
Un intero ciclo storico si è definitivamente concluso. Non solo quello del movimento operaio novecentesco nella configurazione del modello del «socialismo realizzato» in Unione Sovietica, crollato negli anni Ottanta, e del modello socialdemocratico in Occidente, imprigionato nei confini dello sfruttamento capitalistico. Si è concluso anche il ciclo della sinistra italiana post novecentesca: sia della sinistra riformista, trasmutata in appendice del capitale; sia della sinistra alternativista, lontana mille miglia dalla classe lavoratrice del XXI secolo.
 
Le elezioni politiche del 4 marzo al riguardo parlano chiaro. Occorre dunque un nuovo inizio, dal quale si può muovere solo facendo chiarezza su due questioni decisive. Innanzitutto, sulla principale classe sociale di riferimento per la costruzione di una nuova formazione politica. E poi, sulla concretezza degli obiettivi da perseguire dentro una generale strategia di cambiamento, da proporre per l’Italia e per l’Europa.
 
Nella fase del capitalismo digitalizzato, a differenza del passato quando la sinistra politica era prevalentemente fondata sul lavoro manuale manifatturiero, serve oggi una visione più ampia e complessa del lavoro, che comprenda le diverse figure indotte dalla rivoluzione scientifica e tecnologica, dalla diffusione e articolazione delle professioni intellettuali, dalla penetrazione dello sfruttamento e della precarietà in ogni ambito delle attività umane e della riproduzione della natura.
 
In altre parole, si tratta di portare sul terreno del conflitto politico tutti coloro i quali, uomini e donne, giovani e anziani, autoctoni e migranti, al di là delle formule giuridiche siano sfruttati dal capitale in qualsiasi forma diretta o indiretta. E perciò, non solo le lavoratrici e i lavoratori dipendenti in senso stretto, bensì anche le diverse espressioni del lavoro autonomo formalmente riconosciuto, che il più delle volte altro non è se non lavoro eterodiretto.
 
Quanto alla strategia di cambiamento e alla sua concretezza, è tempo di riconoscere che la nostra Costituzione delinea un ardito progetto di trasformazione delle relazioni umane e tra le classi. Sancendo il pluralismo delle forme proprietarie e contestando il monopolio della proprietà privata capitalistica, indica un inedito percorso verso una civiltà superiore che possiamo denominare nuovo socialismo.
 
In pari tempo, ponendo a fondamento della Repubblica democratica il lavoro e non il capitale, ridefinisce i principi di uguaglianza e di libertà, fornisce una nuova trama di diritti e prospetta per le lavoratrici e per i lavoratori il ruolo di classe dirigente. In breve, la lotta per l’attuazione della Costituzione, rendendo operativi i diritti sociali e civili, coincide con la lotta per trasformare la società.
 
A chi sogna la regressione verso l’Europa delle patrie è opportuno far notare che la lotta per l’attuazione della nostra Carta fondamentale va oltre i confini nazionali. Ci porta in Europa e nel mondo, ovunque si ponga il problema di un diverso assetto sociale e dell’unità delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro secolo. I principi fondamentali della Costituzione italiana hanno valore universale, a cominciare dal ripudio della guerra come «strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali». E possono costituire la base di una comune piattaforma di lotta per un’altra Europa, l’Europa dei popoli e dei lavoratori.

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