di Francesco E. Iannuzzi* - Jacobin Italia.

A poco meno di due mesi dall’istituzione dapprima regionalizzata e poi totale dei vari lockdown, sono in molti a domandarsi quali siano gli effetti che la crisi economica e sanitaria sta determinando e determinerà sulle nostre vite, sui modi di consumare e di lavorare. Oltre alle stime sui gravi impatti che il Coronavirus sta avendo e avrà sull’occupazione, è convinzione abbastanza diffusa che il mondo del lavoro e della produzione non tornerà come prima e che le sue contraddizioni non tarderanno ad esplodere. Una delle questioni al centro dell’attenzione è il riconoscimento e l’utilità sociale che attribuiamo ad alcune economie e, di riflesso, ad alcuni lavoratori e, di contro, l’inutilità di altri.

Chi può e chi non può lavorare da casa

Sulle pagine del Manifesto, Marco Revelli, attingendo dall’accoppiamento di Denis Maillard, ha utilizzato la metafora del lavoro di front e back office per separare chi svolgi lavori socialmente meno utili da chi è occupato in lavori essenziali. I primi, che in condizioni non emergenziali sono posizionati «nella luce del lavoro visibile e riconosciuto socialmente», oggi sono per lo più congelati a casa, messi a lavoro da remoto, quindi con una bassa esposizione alla minaccia del virus. I secondi, di contro, sottoposti a lunghi processi di invisibilizzazione e degradazione del proprio status sociale e salariale, sono ora arruolati per combattere il virus (personale sanitario in primis), per proteggere le categorie più vulnerabili e per permettere la riproduzione della vita. Il back office va quindi al fronte, conquista spazi di visibilità e svela una volta per tutte un grande paradosso: invisibili, malpagati, precari, spesso stigmatizzati socialmente, ma essenziali. Su di loro si regge l’infrastruttura della vita. Gli altri, quelli abituati ai riflettori della ribalta, ritirati dalla scena, nei propri appartamenti a ripassare il copione.

La pandemia di Covid-19 mette a nudo le disuguaglianze che operano tra i lavoratori del front e back office, svelando altresì le profonde differenze tra le condizioni materiali e sociali in cui i lavori fondamentali e quelli superflui sono erogati e le gerarchie di esposizione al pericolo. Gli occupati in posizioni intellettuali, dirigenziali, creative possono continuare a svolgere la propria attività con maggiore tranquillità rispetto sia al contagio che all’esposizione all’insicurezza sociale. Gli altri, gli invisibili – tra i quali non c’è solo il personale sociosanitario ma alcune componenti importanti della classe operaia quali gli addetti alle vendite nei supermercati, operatori ecologici, trasportatori, corrieri, riders, addetti alle pulizie, operai delle filiere essenziali (agroalimentare, farmaceutica, energetica, trasporti, logistica ecc.), lavoratori e lavoratrici della cura – vengono mandati in prima linea.

Sulle spalle di questi lavoratori e di queste lavoratrici (spesso migranti) si regge oggi tutta l’infrastruttura essenziale della vita, così come negli ultimi decenni quelle stesse spalle hanno sopportato il peso di scellerati attacchi al salario e ai diritti, e dell’impoverimento economico e sociale. Per questi ultimi, inoltre, al danno si aggiunge la beffa. Le attività dei lavoratori e delle lavoratrici dei «servizi essenziali» sono trasposte, tanto nella retorica patriottica governativa quanto in quella «umanitaria» delle aziende private, alla stregua di un sacrificio necessario per garantire la sopravvivenza e la sicurezza di tutti. Atti di eroismo con cui la politica nasconde le nefandezze dei tagli alla sanità e della diminuzione costante dei livelli occupazionali tra il personale sociosanitario, e le aziende private accelerano il processo di costruzione di comunità con i consumatori, ai danni del lavoro. Come ha infatti recentemente sostenuto Marco Marrone su Jacobin Italia le condizioni di sfruttamento a cui sono sottoposti questi lavoratori e queste lavoratrici (peggiorate durante la crisi sanitaria ma non meno estreme in tempi «normali») vengono presentate come una condizione «naturale, immodificabile e persino giusta», una conseguenza inevitabile della pandemia.

Le contraddizioni che abitano il mondo del lavoro e le disuguaglianze svelate dalla crisi pandemica sono state fotografate da un recentissimo studio pubblicato sull’ultimo numero di Etica ed Economia. Integrando diverse fonti statistiche, l’autore e le autrici giungono a conclusione che solo il 30% dei lavoratori italiani possono potenzialmente lavorare da casa (il che non significa che lo stiano facendo realmente) mentre è inibita questa possibilità al restante 70%. Disaggregando le occupazioni, lo studio mette in luce le polarizzazioni tra questi due gruppi: il lavoro da casa è un’opzione praticabile per il 60% dei lavoratori che occupano le posizioni di vertice del mercato del lavoro (manager, professionisti intellettuali, tecnici e amministrativi) ed è impraticabile per una percentuale che varia dal 100 al 95% per tutti coloro che occupano le posizioni nel vertice basso della struttura occupazionale. Chi gode del privilegio di poter lavorare da casa, ha anche salari mediamente più alti (1.500 euro la media) contro salari che si aggirano in media sui 1.200 euro per chi svolge un lavoro che richiede prossimità spaziale. Una dinamica simile si osserva inoltre nella struttura contrattuale, con i contratti a termine più diffusi nel gruppo di chi non può svolgere il proprio lavoro da casa.

Essenziali ma precari

Benché questa classificazione non rifletta del tutto la divisione tra lavoro essenziale e non essenziale, è comunque un’indicazione utile che mostra come la pandemia abbia di fatto accentuato una polarizzazione già esistente, cioè quella, in termini sommari, fra lavoro più e meno qualificato. La divisione tra lavori che richiedono prossimità fisica e lavori dislocabili a distanza e, di riflesso, tra attività essenziali e non essenziali, tende a porsi in un piano di intersezione con tutte le altre disuguaglianze sistemiche che caratterizzano i mercati del lavoro. In primo luogo quelle economiche: un altro studio dell’Università di Chicago in riferimento al mercato del lavoro degli Stati uniti, mostra come vi sia una relazione positiva tra livelli di reddito e probabilità di lavorare da casa. Gli occupati che non possono lavorare da casa sono in misura maggiore lavoratori poveri, che non posseggono una casa di proprietà, non hanno un titolo di studio elevato, vivono in quartieri più poveri e non dispongono di un’assicurazione sanitaria. A seguire, intervengono le disuguaglianze di «razza». A svolgere questi lavori sono in primo luogo lavoratori e lavoratrici afroamericane e migranti. Diversa è invece la questione di genere: secondo l’analisi dell’università, le donne hanno un’alta probabilità sia di lavorare da casa sia di svolgere lavori che richiedono prossimità fisica. Tuttavia, gli autori non distinguono tra white e black women. Se lo studio avesse adottato un approccio intersezionale, guardando simultaneamente agli incroci tra genere e «razza» (e magari status migratorio), probabilmente sarebbe giunto a conclusioni diverse. È infatti ipotizzabile data l’elevata presenza di lavoratrici afroamericane, latinos e migranti nei servizi essenziali (e soprattutto nella cura, nei supermercati e nella sanità) che queste siano proprio il gruppo sociale più esposto.

Alle disuguaglianze economiche e sociali e alle gerarchie di esposizione al contagio si intersecano poi quelle relative al tema della salute. Basterebbe ricordare che le patologie (diabete, problemi cardiaci ecc.) che sembrano innescare processi di simbiosi mortale con l’infezione da Codiv-19 sono sistematicamente più diffuse nei segmenti più periferici delle classi lavoratrici, verosimilmente gli stessi oggi impegnati proprio per attenuare le conseguenze della pandemia.

L’emergenza Covid ha quindi disvelato da un lato quanto la vita, in tutte le sue dimensioni biologiche e sociali, dipenda dal lavoro riproduttivo, a cui generalmente è associato uno scarso valore economico e simbolico. Infine, ha mostrato l’essenzialità di quelle istituzioni pubbliche (la sanità, i beni pubblici, il welfare) che avrebbero dovuto farsi carico della riproduzione della vita ma che non hanno tenuto a debita distanza le logiche del profitto.

Il capovolgimento di centralità e il disvelamento dell’essenzialità sta già provocando alcune importanti conseguenze. Il mutamento di senso comune rispetto al welfare, alle produzioni fondamentali e al lavoro essenziale sono segnali incoraggianti ma assolutamente non sufficienti ad alimentare illusioni. Non appena sarà possibile, quelli del front office saranno pronti – afferma Revelli – a riprendersi visibilità, centralità, privilegi di classe e persino i meriti respingendo i lavoratori essenziali nel buio del retroscena, dei magri salari, nella miseria e dei diritti negati.

Una parte dell’economia ha in effetti già messo le mani avanti, provvedendo a ribadire le ragioni del perché l’essenziale è così miseramente retribuito e precarizzato. Tra la teoria dell’utilità marginale e quella del capitale umano, tra il paradosso dell’abbondanza e della scarsità e le più innovative teorie dei mercati monopolistici, il concetto di fondo è sempre uno: sono i rapporti di forza che fanno il prezzo e il salario, non l’utilità sociale del lavoro. La pandemia apre in misura maggiore rispetto a qualche mese fa spazi di immaginazione e conflitto e fornisce alcune opzioni non del tutto determinate. Ma la crisi interviene in condizioni sociali e politiche non neutrali e in rapporti di forza ben definiti che accentuano la possibilità che il capitale possa volgere a suo favore queste opzioni. I giganti dell’e-commerce, ricorda Marrone nell’articolo citato, lo stanno già facendo. Essenziali ma estremamente precari, quindi. E non basterà certo la centralità svelata a permettere agli stessi in via automatica la conquista di posizioni di vantaggio e di potere. È in primo luogo il conflitto che dovrà farsi carico di questo programma e, insieme, dell’urgenza di de-mercificare il lavoro (in tutte le sue forme).

Lavorare da casa non sempre è un privilegio  

Quella della ribalta e del retroscena, è una metafora potente e ricca di spunti per immaginare forme di difesa e riconoscimento del lavoro essenziale. Ma come tutti gli abbinamenti binari è anche irta di pericoli. Il principale rischio è quello di omogeneizzare il gruppo dei non essenziali confinati a casa, di appianarne le differenze interne e di privarci, della capacità di discernere chi in questo gruppo è veramente un’élite, e chi invece con questa ha davvero poco da spartire. Pur godendo dell’oggettivo privilegio di essere poco esposti al pericolo del contagio, non tutti coloro che sono confinati nel lavoro a domicilio possono essere considerati immuni dai processi di svalutazione economica, impoverimento e precarizzazione. Tra questi non ci sono infatti solo manager, creativi ben remunerati, broker, professionisti affermati, direttori di grandi quotidiani, opinionisti tv o calciatori che continuano ad allenarsi in mega palestre dentro le loro ville. Al contrario, una grossa fetta del lavoro messo in tutta fretta a domicilio oggi è svolta da persone che vivono dei loro magri salari o stipendi, con redditi discontinui e scarse tutele sociali: precari, falsi autonomi, freelance, stagisti, partite iva, lavoratori a progetto ecc.

Basti pensare che tra coloro che in questo momento lavorano da casa vi sono anche gli operatori dei call center, fino a qualche anno fa considerati vere e proprie figure quintessenziali della precarietà e dello sfruttamento selvaggio. Persino le e i sex workers si stanno riorganizzando per offrire servizi online ai propri clienti. Non si tratta certo di figure a cui possiamo attribuire qualche privilegio. Le cose non vanno affatto meglio tra i lavoratori e le lavoratrici intellettuali (giornalisti, ricercatori, correttori di bozze, traduttori, occupati/e nei servizi cultura) che, a differenza di qualche decennio fa, solo con uno sforzo enorme della fantasia e in pochissimi casi possiamo ritenere benestanti. La categoria occupazionale più massicciamente spostata sul lavoro a domicilio è certamente quella degli e delle insegnanti. Sono in molti a denunciare come il loro orario di lavoro sia letteralmente raddoppiato, anche a causa della fragilità di quella infrastruttura digitale che dovrebbe garantire la continuità didattica. Non solo svolgono un ruolo nient’affatto superfluo (anche nella pandemia) ma di sicuro non possono certo ritenersi dei privilegiati. In molti casi parliamo di precari, magari intrappolati nelle sedi di incarico a centinaia di chilometri di distanza dalla propria residenza, pagati miseramente, specie in Italia, spesso al centro di processi di screditamento sociale ed economico.

Questo gigantesco esperimento di massa e forzato del lavoro a domicilio ha portato alla luce anche vecchie e nuove disuguaglianze, che non si riducono soltanto alla possibilità o meno di fare telelavoro, ma pongono il problema di come lo si fa, in quali condizioni, con quali mezzi e con quali rapporti di potere e quale autonomia dentro l’organizzazione. Avere o non avere una casa o spazi sufficientemente ampi per consentire sia le attività di produzione sia di riproduzione, co-abitarla o meno, disporre di connessione internet e di dispositivi idonei per lavorare, condividerli magari con i figli a cui va garantita la continuità didattica, sono tutte vicissitudini che possono fare la differenza.

Se è vero che in questo momento lo smart working permette di lavorare in condizione di sicurezza, riducendo drasticamente l’esposizione al contagio, è anche vero che la sua diffusione capillare non è priva di conseguenze, potenzialmente anche gravi. La smaterializzazione dei luoghi di lavoro e i processi di precarizzazione corrono quasi sempre sullo stesso binario. E anche le indicazioni che riceviamo dalla storia non sono incoraggianti. L’Italia ha una lunga tradizione di lavoro a domicilio nei settori più disparati (soprattutto nel tessile e in alcune regioni) e storicamente in queste forme di organizzazione del lavoro si sono annidati alcuni dei dispositivi di sfruttamento più estremi.  Senza la capacità di orientare le scelte sociali, con lo smart working le aziende non muteranno orientamento ma continueranno a perseguire, come hanno sempre fatto, le proprie priorità. E tra queste priorità non figura certo la conciliazione tra vita e lavoro dei dipendenti. Un rischio ancora più concreto se si considera che molti studi di consulenza aziendale si stanno muovendo in tal senso, mettendo a punto pacchetti di riorganizzazione aziendale all inclusive con tanto di analisi «comportamentali» sui lavoratori e sulle loro predisposizioni a lavorare da casa, senza distrazioni.

Certo, non è affatto detto che lo smart working si diffonderà così rapidamente come lasciano presagire (e vorrebbero) le società di consulenza. In primo luogo, il considerevole ricorso allo smart working in tempi emergenziali ha già mostrato agli stessi lavoratori tutte le sue problematiche. E chi ha vissuto queste contraddizioni potrebbe opporre resistenza una volta tornati alla «normalità». In secondo luogo, lo smart working presuppone una solida infrastruttura informatica e digitale, cosa di cui l’Italia dispone solo in parte, mentre i livelli di digitalizzazione delle aziende italiane, a dispetto della retorica della digital revolution, sono da seconda rivoluzione industriale. Infine, perché le stesse imprese potrebbero paradossalmente essere riluttanti. Al contrario delle multinazionali, che paiono molto predisposte all’utilizzo pervasivo di strumenti di controllo a distanza, la figura antropologica del padrone italiano è scarsamente incline a privarsi del controllo diretto sul lavoro che si esercita in forma personale, dispotica e face-to-face (magari celata in qualche narrazione paternalistica). I limiti dunque ci sono, ma anche in questo caso non sono sufficienti per allentare la guardia o per considerare un’élite tutti coloro che possono lavorare da casa.

Ovviamente le problematiche e le contraddizioni di cui fanno esperienza quanti sono stati messi a lavoro «a domicilio» non sono sufficienti per appianare la differenza fondamentale che li divide, in questo momento storico, dai lavoratori e le lavoratrici dispersi per le strade, gli ospedali, gli studi medici, i supermercati, le campagne e le fabbriche. Ma la differenza tra questi due gruppi non è il terreno su cui articolare una nuova frattura di classe, quanto un elemento per rivendicare la centralità del lavoro. Rimarcare fratture è controproducente. Le contrapposizioni giocate nello stesso soggetto del lavoro (tra garantiti e non garantiti, insider o outsider, protetti e non protetti) hanno storicamente fornito il substrato ideologico nel nome del quale si sono condotte riforme del lavoro che hanno indebolito tutta la classe che vive di lavoro.

Piuttosto, la situazione vissuta dai lavoratori e dalle lavoratrici, a prescindere se in prima linea, a casa, disoccupati o in cassa integrazione e la mobilitazione a cui è stato chiamato ancora una volta tutto il lavoro per sbrogliare la matassa della crisi in condizioni di ipersfruttamento, mostrano l’indispensabilità del lavoro per assicurare la sopravvivenza e riprodurre la vita. Una verità che apre inevitabilmente un interrogativo: se i lavoratori e le lavoratrici sono necessari, i padroni, invece, a cosa servono?

*Francesco E. Iannuzzi è dottore di ricerca in scienze sociali. Attualmente collabora con l’università di Padova.

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