di Maria Pellegrini.

Alla donna romana dell’antichità non erano riconosciuti diritti, doveva essere sottoposta alla tutela di un uomo, prima il padre poi il marito; alle sole Vestali era riconosciuta una certa indipendenza, come si legge in una legge delle XII Tavole: “Le femmine, sebbene di età adulta, devono essere sotto tutela, eccetto le vergini Vestali”.

Le donne, di qualsiasi ceto sociale, non potevano decidere di loro stesse, dei loro beni, dei loro figli; motivo di tale provvedimento era la loro ignoranza della legge, l’inferiorità naturale rispetto all’uomo, la leggerezza d’animo; quindi era impossibile che una donna potesse prendere la parola in pubblico per difendere sé stessa o qualcun altro. La storia però ha tramandato alcune eccezioni. Tra queste rientra Ortensia, figlia di Quinto Ortensio, celebre avvocato, che aveva consentito alla figlia di avere un’istruzione superiore, quella che i romani riservavano solo ai figli maschi.

Nel 42 a. C. i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido imposero una forte tassazione a millequattrocento matrone dell’aristocrazia romana, stabilita in base al patrimonio, per contribuire alle spese sostenute nella guerra civile, ma anche per porre un freno al lusso che le donne ostentavano con gioielli e abiti raffinati. Una delegazione di matrone tentò una mediazione attraverso le congiunte dei triumviri sperando che con la loro influenza si riuscisse a sospendere questo iniquo provvedimento fiscale, ma Fulvia, l’arrogante moglie di Antonio, le scacciò dalla sua casa.

Nel Foro non era permesso alle donne di discutere le proprie cause, ma poiché nessun uomo aveva osato assumere il patrocinio di queste ribelli dell’altro sesso per non incorrere nell’ira dei triumviri, esse chiesero a Ortensia di rappresentarle fidandosi della sua conoscenza della legge e delle capacità oratorie apprese dal padre. Ortensia si presentò dinanzi al tribunale - fatto sorprendente per la società romana: una donna che perorasse la causa di altre donne davanti a un consesso maschile era del tutto inusuale - e pronunciò un’orazione considerata straordinaria anche da Quintiliano, maestro di retorica vissuto nel I sec. d.C., non solo per l’eccezionalità dell’evento ma anche per l’abilità dell’oratrice che seppe usare le argomentazioni del diritto romano secondo il quale alle donne era negato l’accesso al potere e alle cariche di magistratura. Con grande sagacia ella affermò che se erano escluse dal potere non doveva essere chiesto loro il pagamento di tasse per il suo esercizio. Fece dunque leva sulla tradizionale ideologia maschile, basando la propria arringa sui diritti e doveri delle donne. Per lo storico Appiano di Alessandria il discorso doveva essere molto importante, se egli lo riportò nella sua opera, (“Guerre civili”, IV, 32-34) pur essendo già noto perché lo elogiarono anche Valerio Massimo (“Detti e fatti memorabili”, VIII, 3, 3) e Quintiliano (“La formazione dell’oratore”, I, 1,6).

Ortensia, in nome di tutte, così parlò:

“Ci avete da sempre privato del potere e ora volete tassare noi che non comandiamo nulla? Ci dite che c’è la guerra? E quando mai non c’è stata la guerra? Non potete ridurci nello stato indegno e indecoroso di chi non ha più terra, dote, case. Questi sono beni senza i quali a donne libere non è possibile vivere. Potremmo donarvi spontaneamente dei gioielli, come hanno fatto una volta le nostre madri, quando ciò serviva a difendere la patria da nemici, ma a voi il patrimonio di cui volete privarci serve solo a farvi guerra l’uno contro l’altro”.

Ciò che l’oratrice voleva affermare era che le donne sarebbero state pronte a contribuire con le proprie ricchezze, se si fosse trattato di una situazione particolarmente critica per lo Stato romano, come era stato al tempo della guerra punica, quando i Cartaginesi erano giunti a minacciare Roma stessa e ed esse avevano deciso, spontaneamente, di contribuire con la donazione di gioielli senza bisogno di sanzioni in caso di opposizione. Ma allora la situazione era diversa, non c’era la guerra contro un nemico esterno, ma era in atto un conflitto civile al quale esse si sentivano estranee: perché avrebbero dovuto condividere le spese di un evento non voluto da loro, visto che non era loro permesso condividere nulla dell’attività politica, dominio esclusivo dell’uomo? Nel discorso ricordava che al tempo delle guerre civili tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo, non si era preteso nulla da loro. Riguardo al momento critico cui Ortensia alludeva è stato di recente stabilito che non si tratterebbe del 214 o del 207 a. C., come alcuni hanno ipotizzato, sulla base del racconto di Livio che accennava a due episodi della seconda guerra punica, in cui le donne furono protagoniste di donazioni, ma non volontarie, bensì del 210 a.C., quando, appunto, su iniziativa dei consoli, le donne donarono i loro gioielli, mantenendo per sé solo un’oncia d’oro.

Ortensia mostrò di avere autocoscienza dell’indipendenza economica femminile e di non essere disposta a versare somme di denaro su costrizione, ma solo per libera scelta e nel caso che ci fosse in gioco la salvezza della patria, infatti, citò l’esempio delle antenate.

Un’altra frase del discorso di Ortensia rivolto nel Foro ai triumviri fu questa:

“Voi vantate il glorioso titolo di riformatori dello stato, un nome che si volgerà a vostra eterna infamia se, senza il minimo riguardo per le leggi di equità, persisterete nel vostro perverso proposito di saccheggiare le vite e le finanze delle donne che non vi hanno dato alcuna giusta causa d’offesa.”

C’è chi ha interpretato questo intervento femminile in un consesso di soli uomini come sintomo di emancipazione politica della donna, ma non fu così: parlare nel Foro fu, per Ortensia, una necessità, non si può parlare di emancipazione politica, poiché non fu riconosciuto con qualche legge alle donne il diritto di parlare in pubblico. I triumviri furono costretti ad ascoltare le loro ragioni attraverso la loro rappresentante. Si potrebbe, invece, parlare di emancipazione economica, poiché, con la morte di tutti i parenti e degli eventuali tutori, come era già accaduto in altri periodi storici, le donne si trovarono di fatto, anche se non di diritto, ad amministrare i patrimoni ereditati. In seguito alle guerre molte di loro erano divenute vedove o orfane di padre e prive di fratelli, non avevano più parenti maschi abilitati a parlare per loro di fronte alla legge e sarebbero state penalizzate anche finanziariamente se non avessero più avuto modo di tutelare se stesse e i loro patrimoni.

Il discorso di Ortensia mostra una lucidità di analisi politica che lascia supporre una notevole maturità nell’ambiente aristocratico da lei frequentato e una partecipazione non concreta ma intellettuale alle vicende storiche del proprio tempo.

I triumviri ritornarono sulle loro decisioni e finirono col tassare solo quattrocento matrone con il reddito superiore ai centomila denari, ma vietarono da quel momento alle donne di parlare “pro aliis”, cioè in difesa di altri, dunque di fare le avvocate e le politiche. Non si sa con certezza quando fu promulgata questa legge che in realtà testimoniava come per le donne tacere era un dovere. Riguardo all’interdizione di assumere un ruolo attivo in contesti pubblici ritorna spesso il motivo della “verecundia” e del “pudor” che le rappresentanti del sesso femminile dovevano sempre tener presenti. Lo stesso Valerio Massimo all’inizio del capitolo nel quale tratta delle “Donne che difesero se stesse o altre persone alla presenza dei tribunali” scrive:

“Non bisogna passare sotto silenzio quelle donne cui né il sesso né la verecondia dell’abito femminile valsero a far tacere nel Foro e nei tribunali”.

Si può osservare una certa avversione da parte dello scrittore per le donne che, dimentiche della loro femminilità e della verecondia dovuta al loro abito, intervengono nel Foro e nei tribunali.

Nei tre esempi di donne che ebbero il coraggio di presentarsi davanti ai giudici e svolgere il ruolo di avvocate di se stesse, o di altri accusati, si nota una certa avversione per le figure femminili ricordate:

Caia Afrania è definita “incline alle liti… impudenza fatta persona… personificazione dell’intrigo femminile… tanto che alle donne di cattivi costumi suole appiopparsi l’appellativo calunnioso di Afrania. Di un simile mostro si deve far sapere ai posteri più quando scomparve che quando nacque”. È anche annullata la sua femminilità, poiché il suo parlare nel foro è paragonato “al latrare di un cane” mentre la voce femminile è di solito considerata arma di seduzione. Tutto questo livore contro una donna perché si recava spesso in tribunale reclamando a gran voce il suo diritto di esprimere giudizi in difesa di accuse rivolte a lei o ad altri.

Di Mesia, accusata ingiustamente di una qualche colpa di cui non si dice quale fosse, egli scrive: “da sola si difese con coraggio tanto che fu assolta dall’accusa con verdetto unanime”, ma poi aggiunge che “sotto l’aspetto di donna nascondeva un animo virile tanto che ebbe il soprannome di Androgine”. Porre l’accento sulla mancata femminilità era un insulto nei confronti di una donna giacché l’aggettivo latino “androginus” era usato con significato dispregiativo.

A una prima lettura l’esempio di Ortensia sembrerebbe positivo rispetto agli altri due casi riferiti dall’Autore, ma in realtà Valerio Massimo sembra trovare sconveniente che un simile talento oratorio, più confacente a un uomo, sia esercitato da una donna; la figura stessa di Ortensia finisce con l’essere adombrata da quella del più illustre genitore: “Sembra che il padre Quinto Ortensio riviva nella figlia e ne ispiri le parole”.

Tuttavia fu proprio durante le guerre civili che seguirono l’uccisione di Giulio Cesare e condussero al principato di Ottaviano Augusto, il tempo in cui a Roma si consolidò il potere non ufficiale ma reale delle donne, come, per citarne solo alcune, quello di Fulvia, la moglie di Marco Antonio, che combatté contro Ottaviano, e quello di Livia, l’abilissima moglie di Ottaviano e di Agrippina minore che sotto Claudio esercitò un immenso potere e fu l’artefice dell’ascesa del figlio Nerone.

Tuttavia a proposito della norma del diritto di “postulare pro aliis” cioè difendere personalmente gli altrui interessi davanti al pretore, ancora nel terzo secolo d. C. un giurista, Ulpiano, scrive quali persone secondo l’editto del pretore non possano farlo. Tra questi compaiono le donne alle quali si richiedono riservatezza e “pudicitia”.

Le donne devono dunque rimanere in silenzio, come dimostra la storia di un´antica divinità, dal nome molto significativo: Tacita Muta. Si chiamava Lara prima di assumere questo nome ed era una ninfa che, come leggiamo nei “Fasti” di Ovidio, ebbe la pessima idea di svelare alla sorella l´amore che Giove nutriva per lei. Per punirla, il re dell’Olimpo le strappò la lingua e a partire da quel giorno fu onorata come dea del silenzio.

“Mulier taceat in Ecclesia” con queste parole anche Paolo di Tarso, vissuto nella prima metà del I sec. d. C., prima avversario del Cristianesimo, poi dopo la conversione divenuto apostolo della nuova religione, in una lettera ai Corinzi, proibiva alla donna di parlare nelle riunioni della comunità: non inventava niente, traghettava nel neonato cristianesimo una legge già esistente.

Potremmo dire con Anna Maria Ortese:

“Tutta la storia della vita delle donne è piena di silenzi”.

Sulla problematica del “silenzio” delle donne a Roma si può leggere: Eva Cantarella, “Tacita Muta. La donna nella città antica” (Roma, 1985)

Nota. Per l’immagine: Museo archeologico di Napoli, affresco pompeiano che può rappresentare la giovane Ortensia.

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