di Maria Pellegrini.

“È arrivata l’estate e con essa il caldo portato dall’anticiclone, già ribattezzato Scipione, che insieme all’alta pressione nordafricana porterà in alto la colonnina di mercurio”. La notizia arriva dai bollettini metereologici. Da qualche anno è diventata una moda prendere a prestito nomi della mitologia o della storia greca o romana, per indicare “il tempo che farà”. Se c’è un improvviso cambio di temperatura si annuncia con il nome della omerica maga Circe che trasformava gli uomini in porci, per indicare l’arrivo del caldo torrido si ricorre a Cerbero, il cane a tre teste che era a guardia degli Inferi o a Caronte, il traghettatore di morti che attraverso lo stagnante fiume infernale Stige conduceva alla loro destinazione nell’Oltretomba. Ora è la volta di Scipione, noto personaggio romano detto “Africano” per le brillanti vittorie ottenute contro il cartaginese Annibale, e quella decisiva nella battaglia di Zama, in Africa, del 202 a.C.

Concediamo allora a Publio Cornelio Scipione, figlio dell’omonimo console del 218 a. C., l’onore di qualche notizia in più sulla sua vita e fama di comandante che riuscì a porre fine alla seconda guerra contro i Cartaginesi spostando il teatro di battaglia dall’Italia in Africa.

Per una sintetica scheda biografica riportiamo alcune date significative:

 

Publio Cornelio Scipione, era nato nel 235 a.C. a Roma. Apparteneva alla più potente e antica gens romana della prima repubblica, quella Cornelia, che tra il III e il II secolo a.C., ebbe ben venti consoli. Cominciò la carriera militare giovanissimo, durante la seconda guerra punica. Negli anni tra il 218 e il 216 a.C., Roma andò incontro ad alcune terribili sconfitte. Le battaglie presso i fiumi Ticino e Trebbia, presso il lago Trasimeno e soprattutto a Canne segnarono una crisi talmente profonda da far credere ad una imminente fine, per mano di Annibale, della gloriosa repubblica romana. Lo storico Tito Livio narra che dopo la battaglia di Canne, in cui era stato decimato quasi tutto l’esercito romano, Scipione, forte del suo ascendente sui soldati superstiti, chiese loro di affidarsi a lui, perché li avrebbe condotti in salvo. Riuscì non solo a eludere i nemici che perlustravano il territorio per far strage dei sopravvissuti, ma li fece giungere sani e salvi a Canosa, in Puglia.

Nel 211 a.C., l’anno della morte di suo padre, con una procedura d’eccezione, data la giovane età (aveva 24 anni), fu nominato comandante proconsolare in Spagna; dimostrò subito le sue capacità impadronendosi nel 209 a.C. di Carthago Nova, una città importante per gli approvvigionamenti cartaginesi. Non riuscì a impedire che Asdrubale, fratello di Annibale, passasse in Italia per ricongiungersi con il fratello che stazionava nell’Italia meridionale. Ma nel 207 presso il fiume Metauro una strepitosa vittoria distrusse l’esercito cartaginese e Asdrubale fu ucciso. La sua testa mozzata che i Romani fecero arrivare nel campo cartaginese, fu un chiaro segno per Annibale che le speranze di ricevere aiuti dalla madrepatria erano scomparse per sempre. Scipione tornò a Roma e, non ancora trentenne, venne eletto console nel 205 a.C. L’anno successivo si fece dare l’incarico di passare in Africa per assalire i Cartaginesi nel loro stesso territorio. Sconfisse due volte i Cartaginesi, che richiamarono Annibale dall’Italia, proprio come Scipione aveva previsto. La vittoria definitiva su Annibale ebbe luogo il 18 ottobre del 202 a.C. a Zama, nell’entroterra tunisino. Annibale si rifugiò in Oriente, dove tentò senza fortuna di suscitare nuove guerre contro Roma, mentre Scipione a Roma celebrò un grandioso trionfo e prese il soprannome onorifico di “Africano”. Negli anni successivi ottenne tutte le cariche politiche che potevano essergli tributate e la sua parola, in Senato e tra il popolo, era legge.

Tutti coloro che facevano capo a Catone il Censore guardavano con crescente preoccupazione l’ascesa di quell’uomo, temendo che da un momento all’altro potesse prendersi il potere supremo con le armi. Nel 190 fu accanto a suo fratello Lucio Scipione che aveva il comando della guerra contro Antioco III di Siria; i Romani, grazie soprattutto al contributo dell’Africano e alle sue capacità strategiche, ottennero una splendida vittoria a Magnesia, in Asia Minore.

A Roma intanto gli esponenti politici guidati da Catone il Censore, si posero decisamente contro i due fratelli, intentarono ripetuti processi contro di loro, accusarono di corruzione Lucio Scipione, chiedendogli conto del denaro ottenuto da Antioco III come risarcimento della guerra. L’Africano, che difendeva suo fratello, intervenne sdegnosamente dimostrando la correttezza della gestione della indennità di guerra ottenuta da Antioco. In mancanza di prove concrete l’azione giudiziaria, dopo alcune sedute e rinvii, alla fine fu annullata. Tuttavia Scipione, deluso e amareggiato, si ritirò in una sorta di volontario esilio nella sua villa di Literno, in Campania, dove nel 183 a.C. morì. Si dice che avesse pronunciato la famosa frase “Ingrata patria non avrai le mie ossa”. Nello stesso anno Annibale, dopo aver vagato di corte in corte nell’inutile tentativo di trovare nuovi nemici contro Roma, si suicidò per evitare la cattura.

 

Gli storici antichi lo hanno soprattutto ricordato per la battaglia di Zama dove dopo due anni di alterne operazioni militari, l’esercito romano e quello cartaginese “due fortissimi eserciti” si trovarono schierati uno contro l’altro, destinati ad affrontarsi in una battaglia campale che avrebbe deciso le sorti di una guerra durata 16 anni. Alla testa degli eserciti c’erano i due comandanti in capo, protagonisti assoluti del conflitto: Publio Cornelio Scipione e il punico Annibale, il nemico di sempre. Vanificata anche l’ultima speranza di concludere pacificamente e diplomaticamente la guerra (i Cartaginesi avevano infatti violato i patti già ratificati dal Senato di Roma), ai due generali avversari non restò che fare leva sull’emotività dei propri uomini, incitandoli all’eroismo e rammentando loro la portata universale dello scontro.

Lo storico Livio fa pronunciare, ai due condottieri, nelle ore che li separano dallo scontro imminente un discorso. Riportiamo il suo racconto:

“Appena furono giunti nei loro accampamenti, entrambi intimarono ai propri soldati di tenere pronti gli animi e le armi per lo scontro decisivo, dal momento che, se la sorte fosse stata propizia, sarebbero stati vincitori non già per una sola giornata ma per sempre. Il giorno seguente, prima del calar della notte, avrebbero saputo a chi sarebbe toccato - a Roma o a Cartagine - legiferare per i popoli; non l’Africa né l’Italia sarebbe stata la ricompensa per la vittoria, ma il mondo intero; il pericolo sarebbe stato pari al premio per chi fosse uscito sconfitto dalla battaglia […] Per i Romani infatti non c’era alcun rifugio in una terra straniera e sconosciuta, e sui Cartaginesi, se avessero perduto le ultime risorse militari, sembrava incombere la prospettiva di un immediato sterminio […] A questa prova decisiva si apprestavano, il giorno seguente, i due più famosi comandanti di due potentissimi popoli, i due più valenti eserciti destinati in quel giorno ad accrescere il numero delle glorie già ottenute o a vanificarle tutte”.

 

Lo storico greco Polibio, suo contemporaneo così scrisse di lui “Fu l’uomo più illustre fra quasi tutti quelli che vissero prima di lui, e per lui fu coniato un detto che pochi altri uomini illustri hanno meritato nel corso della storia: per un tale nome nessun elogio è pari alla grandezza”.

La sua fama arrivò intatta fino al Medioevo. Dante Alighieri, nel Paradiso (Canto XXVII, 61-62), evoca “l’alta provedenza che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo”.

L’abate francese Seran de La Tour, autore nel XVIII secolo di una biografia su Scipione, scrisse nella dedica a Luigi XV: “Un re deve solo prendere a modello l’uomo più illustre della storia romana, Scipione Africano. Il Cielo stesso pare aver formato questo particolare eroe per indicare ai reggenti di questo mondo l’arte di governare con giustizia”.

Non dimentichiamo poi: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”, versi dell’Inno scritto nell’autunno del 1847 dal ventenne patriota Goffredo Mameli, che pervaso da quel clima di fervore patriottico in previsione di una guerra contro l’Austria, sperava che l’Italia combattesse, ispirata e protetta dal coraggio di Scipione, che aveva salvato Roma dalla conquista cartaginese.

 

Nel 1937 venne prodotto il film kolossal “Scipione l’Africano”, che riproponendo le vicende della seconda guerra punica e della conquista romana di Cartagine, celebrava allusivamente le conquiste dell’Italia fascista in Africa nella guerra di aggressione all’Etiopia appena conclusa. L’imperialismo romano fu assunto in Italia come argomento propagandistico dal regime fascista, che a tale scopo fu tra i primi ad utilizzare i mezzi di comunicazione di massa, la radio e il cinema.

La battuta finale di Scipione mentre fa scorrere tra le dita il grano africano: “Buon grano: e fra poco, con l’aiuto degli dei, ci sarà la semina”, che evoca uno dei temi propagandistici con i quali il Fascismo giustificava la guerra all’Etiopia (il bisogno dell’Italia di terre agricole) e richiama le scene dei cinegiornali in cui Mussolini a torso nudo mieteva il primo grano delle paludi Pontine da poco bonificate dal suo governo.

Tipico esempio di kolossal di regime e quindi di un tipo di Cinema asservito al potere politico, Scipione l'Africano intendeva celebrare la conquista italiana dell’Etiopia nella Seconda Guerra d’Africa (1935-36), evidenziandone in particolare due aspetti: vendicare la terribile sconfitta di Adua risalente alla Prima Guerra d'Africa (1896) e mostrare la vocazione contadina dei coloni che avrebbe cominciato a coltivare le terre africane conquistate. Insomma, Canne come Adua, Scipione come Mussolini e, soprattutto, l’Italia fascista come l’antica Roma, entrambe desiderose di affermare il proprio dominio sul Mediterraneo.

Nota. Immagine di www.arte21.it

Condividi