Non ci saranno dunque le elezioni, che Salvini invocava come referendum “tra chi vuole un’Italia libera e chi vuole un’Italia serva”. Nasce il governo gialloverde, che può contare anche sulla benevola attenzione di una fiamma tricolore che si sente tradita nella sua vocazione entrista. Nel grigiore assoluto della sua composizione, e nella pochezza imbarazzante della sua leadership, l’esecutivo segna comunque una svolta culturale nella storia repubblicana.

La crisi sociale nel sud Europa ha visto risposte di sinistra (Grecia, Portogallo, ora Spagna), soluzioni moderate pilotate dalle élite finanziarie (Francia) e cadute reazionarie negli orientamenti delle classi dirigenti e del sentire della massa (Italia). Soprattutto in Italia si è verificato il collasso di tutte le culture politiche (socialiste, cattoliche, liberali) e il trionfo di semplificazioni, esibizioni muscolari, intimidazione eversive (piazza contro Quirinale). Gli equilibri della coalizione gialloverde sono spiccatamente tendenti verso la destra, e il nero predomina netto, come in nessun altro paese europeo.
L’impronta culturale dell’esecutivo è infatti quella lasciata da Salvini che ora, soddisfatto nei suoi appetiti, non è più “arrabbiato come una bestia” e quindi non minaccia di organizzare la “passeggiata a Roma”. In una escalation di violenza verbale (“mai più servi”), il capo padano continua a prometterle ai “bastardi” migranti, a sbraitare sul diritto alla pistola, a inneggiare alla sacra galera, secondo le metafore di un linguaggio aggressivo che pare poco compatibile con un ruolo al Viminale.

Oltre al lepenista lombardo, una linea di continuità con le vecchie esperienze, che dall’andreottismo approdano alla destra, viene incarnata dalla Bongiorno. Un’altra via di continuismo tra il vecchio ordine e il governo ribelle è rappresentata da Savona (nelle parole del capo leghista: “Savona vale 18 Salvini, 32 Giorgetti e 78 altri ministri dell’Economia. Qualunque figura diversa non avrebbe garantito gli stessi risultati”). Trasformato in un apostolo degli oppressi, l’economista sardo è una figura ambigua che restituisce l’ombra del passato: appartiene alla ristretta élite che controlla i vertici delle banche, che ha contribuito alla progettazione del Mose, che è stato coinvolto in inchieste e censure per essere salvato dalla prescrizione.
Sul suo nome si è sviluppata una opaca lotta tra fazioni dell’èlite finanziaria e bancaria, dietro cui si odono anche antichi rancori personali, rivalità e ambizioni tradite e dissimulate dall’odio antitedesco. Anche l’economista di Tor Vergata è il tratto d’unione con il berlusconismo come visibili paiono i contatti con spezzoni dell’establishment un tempo montiano. Il sostegno esterno non manca. I dimostranti dinanzi a Montecitorio invocano “il grande presidente, avvocato degli italiani” e aspettano la sua risposta al grido contro la disoccupazione imminente. Una volta c’era la classe operaia che conquistava diritti e minacciava i poteri per imporre grandi riforme di civiltà. Adesso ci sono solo singoli spaesati e disorientati che votano per Grillo e Salvini.
Si tratta di ceti senza coscienza, che accettano proprio con il loro voto, di devolvere il bilancio statale ai ricchi, premiati dai due vincitori di marzo con la splendida flat tax, che lascerà vuote, come sempre, le tasche di chi lavora e riempirà i già lauti conti dei manager, degli imprenditori, dei finanzieri. L’assalto, che gli operai hanno consentito, alla fiscalità generale cancellerà i già scarsi servizi pubblici e sociali. E poi, per non farsi mancare la giusta attenzione caritatevole verso gli ultimi, gli operai hanno votato per chi intende destinare quasi 800 euro al mese ai non attivi, che così guadagneranno quasi quanto loro, che buttano il tempo ad obbedire ad un padrone.

La cecità del mondo lavoro ha prodotto il governo populista che non se la prende solo con i diritti individuali e i migranti (“prima gli italiani”). Colpirà presto ciò che resta dei diritti e della dignità del lavoro. La natura di destra e di classe del governo non può sfuggire. Ai ricchi l’esecutivo acefalo promette l’occupazione dell’amministrazione, la riduzione favolosa delle tasse (dal 76 per cento di trent’anni fa, i redditi più alti avranno un prelievo del 15 per cento!) e ai poveri distribuisce abbondanti le chiacchiere sulla sicurezza e sul respingimento degli immigrati da riportare a casa loro. Il lessico populista, che cerca facili imputazioni di responsabilità per la crisi, è essenziale ad una strategia di attrazione di ceti sociali marginali, chiamati a sostenere la nuova prova di occupazione privatistica dello Stato, con la scusa della santa battaglia contro il perfido e teutonico nemico esterno.

Quando vince il populismo dal basso, si presentano condizioni di semplificazione-accettazione nelle credenze diffuse che rendono ancora più arduo combattere il potere vorace della finanza, delle aziende della rete e delle micro imprese dedite alle esportazioni. E’ stato molto più semplice isolare il populismo dall’alto inventato da Berlusconi e scimmiottato poi da Renzi. Il potere della narrazione di governo urtava con il principio di realtà e quindi si sgonfiava da sé alle prime congiunture negative. Ora non è così, perché lo storytelling del populismo dal basso prevede una diversa sceneggiatura e il rendimento negativo del nuovo governo non smonta la santa leggenda della purificazione.
Già nelle amministrazioni locali (a Roma, persino a Livorno) il principio di realtà non sfiora il cattivo governo grillino. Il dissesto della capitale che muore nell’abbandono, che precipita nello squallore pubblico e nella ripresa della speculazione (altra costruzione-mostro a Piazza Navigatori, nuovo stadio) prova che il consenso al M5S è indifferente a scopi, realizzazioni, comportamenti virtuosi.

C’è in esso una volontà di castigo che si prolunga nel tempo e non finirà senza aver prima distrutto ogni cosa. Per impedire questa soluzione nichilistica, occorre la ripresa della politica, in una società che mostra solo dispersi eserciti di resistenza che marciano senza alcun capitano. Bisogna partire dalle piccole cose. La piazza del Campidoglio, con la protesta per la chiusura grillina della casa internazionale delle donne, è già in nuce un segnale della possibile inversione di tendenza.
Il secondo atto di ripresa deve essere il voto per la sinistra alle imminenti elezioni per il municipio di Garbatella a Roma, un tempo rossissima e poi conquistata da un esponente del M5S che, per essere oltre destra e sinistra, si è naturalmente accasato con i postfascisti della Meloni. Per ora bisogna accontentarsi di queste piccole prove di disobbedienza sociale e di vitalità politica, in attesa che qualcosa nella sonnolenta sinistra riescano a organizzare e che il sindacato esca dal torpore e recuperi storia e coscienza di classe.

Pubblicato su ​Strisciarossa

 

 

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