di Maria Pellegrini

Uno spirito enciclopedico come quello di Plinio non poteva trascurare una trattazione che riguardasse l’arte e le opere degli artisti. Le arti figurative sono da lui analizzate come prodotti della trasformazione della materia, una manipolazione di prodotti esistenti in natura, per questo rientrano nella sua opera “Naturalis Historia”. Marmo, bronzo, terre colorate diventano, grazie all’intervento dell’uomo, statue e quadri; l’oro, l’argento e le gemme si trasformano invece in gioielli e in oggetti d’abbellimento, in piccole sculture, vasi, e altri recipienti. L’opera d’arte per il grande naturalista è un prodotto naturale, un’immagine illusoria della natura, reinventata attraverso la lavorazione dei materiali che già in potenza contengono questa illusione.

Gli ultimi tre libri dell’enciclopedica opera pliniana non sono una “storia dell’arte antica”, come talvolta sono stati chiamati, ma uno stupendo catalogo di materiali usati per creare prodotti d’arte, di notizie sulle opere e sui loro autori, arricchite da ogni tipo di informazione che riguardi tali temi. I nomi di opere scultoree, pittoriche, architettoniche dovute ad artisti famosi non rientrano nella velleità di una “storia dell’arte”, ma nella infaticabile attività di ricercatore di notizie, propria di quello straordinario uomo che Plinio era. La sua trattazione abbraccia un ampio arco di tempo che va dagli esordi della pittura nel mondo greco (sec. VIII a. C.) fino alla prima età imperiale romana. Secondo la concezione di Senocrate - scultore greco del III secolo a.C. - l’evoluzione dell’arte è vista come una parabola scandita da una nascita (in età arcaica), un culmine (all’epoca di Alessandro Magno con Apelle), una lenta decadenza (in età ellenistica e romana). Fra tutti gli altri autori menzionati da Plinio, Senocrate è la fonte principale da cuiegli trae notizie per la sua trattazione. Secondo il parere di molti studiosi spetta proprio a Senocrate il ruolo di “padre della storia dell’arte”, infatti è il primo ad applicare l’idea del progresso evoluzionistico del filosofo Democrito alla storia delle arti visive.

Prima di consegnarci una quantità di preziose informazioni su opere e artisti altrimenti cancellati dalla memoria storica, Plinio descrive i materiali grezzi (il marmo, i metalli, i minerali), offrendoci con il consueto puntiglio tutta una serie di notizie geografiche, storiche, antropologiche, tecniche. Egli suddivide gli artisti (sono trecentocinquantadue quelli da lui citati) secondo criteri qualitativi: prima i grandi maestri e poi via via i minori. Le descrizioni delle opere sono generalmente molto succinte e si dilungano spesso più sui dettagli esterni che sulla qualità della composizione o sui colori.

La pressoché totale perdita della trattatistica greca sull’arte - a cui Plinio attinge a piene mani - rende ancora più prezioso il contributo di questi libri, con i quali termina la lunga e dettagliata fatica pliniana di catalogazione, le cui notizie sono considerate autorevoli per tutto ciò che riguarda l’arte antica tanto che dal Rinascimento al Settecento costituiranno la base di quanti cercano di ricostruire il quadro delle arti classiche.

I capolavori antichi, soprattutto gli originali greci, giunti fino ai nostri giorni sono in numero molto limitato. Le opere artistiche greche ci sono note soprattutto attraverso copie romane, siano esse statue o più raramente dipinti. Questo rende ancora più importante quanto scrive in proposito Plinio perché in molti casi egli ha visto personalmente gli originali.

 

L’argomento iniziale trattato nel libro XXXV è la scultura. È Fidia che “apre per primo le porte dell’arte alla scultura in bronzo”. Questo artista greco del V sec. a.C., esperto in tutte le tecniche della scultura in bronzo, marmo, avorio, oro, segna uno dei momenti più felici della civiltà greca. La sua statua colossale d’oro e avorio, raffigurante Athena Parthenos (la Vergine Atena), è stata oggetto d’ammirazione per tutta l’antichità, come dimostrano le numerose copie realizzate e le frequenti riprese dei temi iconografici a essa collegati.

Plinio cita in seguito altri artisti resi famosi dalla loro abilità nel V secolo a. C.: Policleto, Mirone e Pytagora. Ma il genere della bronzistica conoscerà la massima fioritura nell’ultimo quarto del IV secolo a.C., specialmente per opera di Lisippo che sviluppa lo stile del naturalismo alterando inoltre il sistema delle proporzioni di Policleto, rimpicciolendo la testa e aumentando quindi il rapporto con l’altezza in modo tale da far apparire le sue figure più snelle e slanciate. L’acme della sua attività si colloca tra il 328 e il 324 a.C., alla corte di Alessandro Magno, dove condivide l’attività col pittore Apelle e col filosofo Aristotele. È nel clima di corte che matura una nuova esigenza di realismo che porterà alla realizzazione dei celebri ritratti di Alessandro, noti attraverso una serie innumerevole di copie.

L’uso del bronzo e del marmo nella statuaria e delle terre colorate nella pittura è per Plinio non soltanto l’occasione per fornirci un lungo elenco cronologico di personalità che si sono distinte fra le tante altre, ma anche per affermare che alcune grandi figure, decisive nello sviluppo storico dell’ars statuaria, come ad esempio Fidia, Policleto, Mirone, Scopa, Lisippo e Prassitele sono stati, sia con il bronzo sia con il marmo, il culmine di una parabola di valori estetici poi discendenti quando l’arte ha incominciato a essere praticata per puro guadagno e non più come una vocazione e desiderio di gloria.

Anche la pittura, “arte un tempo nobile”, sembra dunque in uno stato di decadenza irreversibile. La pittura parietale - lamenta Plinio - è stata soppiantata dalla moda dei rivestimenti marmorei a forma di mosaico che rappresentano cose e animali, e del marmo dipinto; tali rivestimenti, pure pregevoli nella materia, appaiono apprezzabili soprattutto per l’abilità tecnica.

Anche la storia della pittura è interpretata in chiave individualistica. I maggiori maestri della pittura del V e IV secolo a.C., quali Polignoto di Taso, Apollodoro, Zeusi, Timante, Apelle, sono come pietre miliari di questa arte.

 

Idea portante di queste pagine, preziose come fonte di informazioni e aneddoti sugli artisti e le opere della classicità, è che ogni forma d’arte segue una parabola: un’ascesa, come già si è detto, iniziata dalle creazioni di un caposcuola, perfezionata da numerosi seguaci, seguìta infine dalla decadenza di emuli mediocri.

Nel giudicare un’opera d’arte Plinio apprezza la perfezione e l’arditezza inventiva, ma anche, e forse soprattutto, la “verisimiglianza”. A esempio di perfezione ricorda una scultura in bronzo di Lisippo che rappresenta una cagna mentre si lambisce una ferita, talmente simile al reale da “sembrare vera”. La grandezza dell’artista si misura dunque sulla sua capacità di illudere il nostro occhio facendoci apparire vivo e reale ciò che è soltanto dipinto o scolpito. Questo ritratto scultoreo, posto in Campidoglio, era considerato “di valore immenso tanto che i custodi furono minacciati di morte se non avessero fatto una guardia adeguata, perché la perdita non poteva essere compensata da nessuna somma di denaro”.

 

Straordinarie per arditezza inventiva sono considerate le opere colossali: il Mausoleo di Alicarnasso (una delle sette meraviglie del mondo), il Colosso di Rodi (alto 70 cubiti, “pochi arrivano ad abbracciarne il pollice, le sue dita sono più grosse di molte statue”), gli obelischi, le piramidi, i labirinti, le statue gigantesche “che sembrano sfidare gli spazi del cielo”.

 

Plinio, interprete fedele della politica di Vespasiano non dimentica di annotare l’impegno della dinastia imperiale regnante per rendere accessibili al pubblico le opere d’arte, contrapponendosi così all’atteggiamento dei precedenti imperatori della casa Giulio-Claudia (ad eccezione di Augusto, modello ideale per l’imperatore della dinastia Flavia), che amavano circondarsi di opere d’arte tenendole gelosamente custodite nelle loro sfarzose residenze private.

Elencate le più famose opere d’arte della Grecia, il lettore è diligentemente informato su quelle che si potevano vedere a Roma, esaltando così il contributo che Roma e l’Italia hanno dato alla diffusione della cultura, sia con una ricca produzione artistica propria, sia portando a Roma esemplari e riproduzioni dei capolavori greci. “Le opere mirabili visibili nell’Urbe sono numerose quasi quanto le vittorie” scrive Plinio e aggiunge: “Roma ha dunque raggiunto il primato anche nell’arte, così come ha soggiogato il mondo intero. È ormai tempo di passare alle meraviglie di Roma ed elencare le creazioni di 800 anni di forza e capacità assimilativa, mostrando così al tempo stesso tutto il mondo soggiogato”. Tra le “costruzioni più belle che mai ha visto la terra”, il Circo Massimo, fatto costruire da Cesare, la basilica Emilia, “stupenda per le sue colonne frigie”, ricostruita sull’impianto originario (179 a.C.) da Emilio Lepido nel 78 a.C., il Foro di Augusto, e il Tempio della Pace, fatto costruire da Vespasiano, i palazzi di Caligola e di Nerone. Ma in tale esaltazione c’è spazio anche per un giudizio critico dell’Autore, che pur nell’ammirazione per quanto è stato costruito dall’impegno o dalla tecnica degli architetti, fa una distinzione importante: alcuni maestosi edifici appaiono e sono anche una stolta esibizione di potenza e di ricchezza. Autentica meraviglia sono invece quelle opere che uniscono la bellezza e maestà architettonica alla utilità pubblica, quali sono per esempio gli acquedotti. A proposito del rifornimento idrico di Roma, Plinio si esprime così: “Se si calcola attentamente l’abbondanza dell’acqua nelle terme, nelle piscine, nei canali, nelle case, nei giardini, nelle ville suburbane, e il cammino percorso dalle acque per giungere in città, ma anche gli archi, i fornici, i monti forati, le valli riempite e appianate, si riconoscerà che niente di più mirabile è mai esistito su tutta la terra”. Le cloache stesse, “l’opera più notevole che si possa menzionare”, già durante l’edilità di Marco Agrippa attraversavano il sottosuolo dell’intera città, ed era possibile ispezionarle con una barca per l’intero percorso: “ben sette corsi d’acqua incanalati trascinavano con la forza della loro corrente tutti i rifiuti fino al Tevere”.

Proprio nell’ultima pagina della sua immensa fatica, che per l’accumulo e la puntigliosità di notizie e di dati è da considerare quasi un lavoro maniacale, Plinio ci stupisce con la decisione di chiudere concisamente e quasi distrattamente con una specie di classifica dei prezzi più alti attribuiti dall’uomo ai prodotti della natura: perle, cristalli, diamanti, zanne di elefante, gusci di tartaruga e porpora figurano tra le cose per le quali l’uomo spende delle fortune; l’oro “per il quale si fanno follie”, è solo al decimo posto, l’argento al ventesimo.

Nota. Immagine www.arte21.it

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