di Giovanni Corazzi

 

L’interpretazione di capolavori antichi da parte di un artista contemporaneo. Un’arte che legge un’altra arte. Un felice tentativo di interazione tra due mondi tanto distanti e diversi. Tutto questo rappresenta la serie Figures du pouvoir, nella sezione Les Empereurs romains, una carrellata di sontuosi scatti che il fotografo francese Olivier Roller (www.olivierroller.com) ha realizzato avendo come modelli alcuni tra i più bei ritratti marmorei dei Romani che furono. Le immagini, già esposte tra il 2011 e il 2012 a Roma, presso la galleria Spazio Nuovo, sono attualmente in mostra a Mulhouse (Francia) e, nell’autunno, saranno visibili anche alla Fiera Fotofever (www.fotofeverartfair.com/) che si terrà prima a Bruxelles (dal 4 al 6 ottobre) e poi a Parigi (dal 15 al 17 novembre).

La difficoltà insita nella creazione di una dialettica tra l’obiettivo e la scultura è ben espressa da un’immagine militare utilizzata da Roller stesso: «Fare un ritratto è come dare l’assedio a una fortezza e infine conquistarla». Il risultato della conquista è, per gli occhi di chi osserva, una straordinaria umanizzazione di marmi raffiguranti imperatori, politici e uomini comuni. Sempre Roller, del resto, in riferimento ai ritratti di soggetti viventi, esprime la volontà di rifiutare l’artificiosità o il glamour, quando sostiene di non cercare «una luce che illumini, ma che vesta, come se uscisse dalla pelle della persona piuttosto che posarsi su di lei». Proprio l’elemento della luce e, nel gioco di contrasto, del buio, rappresenta la reinterpretazione più specificamente moderna dell’opera classica, se si considera come, nel mondo antico, le statue fossero per lo più en plein air e quindi godessero di un’illuminazione naturale e variabile. D’altra parte, noi, di queste statue, abbiamo di norma perso non solo l’originaria ubicazione, ma anche la variegata coloritura pitturata nel marmo (policromia), e, dunque, oggi l’arte può di nuovo intervenire per compensare, in forme diverse, aspetti di cui si sente, anche inconsapevolmente, la mancanza. E le immagini di Roller sembrano davvero proporre un’interpretazione artistica del soggetto inquadrato.

L’obiettivo del fotografo francese, infatti, mettendo a fuoco con realismo quel dettaglio o quella forma su cui difficilmente il fruitore dell’opera poserebbe lo sguardo in una visione dal vivo, induce ad osservare l’opera stessa con un occhio diverso, con un approccio meno freddo o classicistico, si direbbe quasi partecipe, invitando ad una riflessione sempre attuale sulla labilità di un potere che, prima o poi, viene ad essere perso e sulla transitorietà della vita. Così, nel Cesare di Pantelleria, raro trovamento archeologico di ormai un decennio fa, l’asimmetria sopracciliare nonché la smorfia delle labbra, elementi esaltati dall’arte del fotografo, esprimono l’amara consapevolezza di un dittatore democratico tradito dai suoi concittadini - quella “sottile vena di pacato pessimismo” già individuata dall’archeologo suo scopritore, Sebastiano Tusa. Un uomo, forse addirittura il triumviro Crasso, ingloriosamente caduto nella disfatta di Carre del 53 a.C., emerge, con il suo profilo, dal buio, meditando profondi pensieri: «potrebbe trovarsi tra le quinte di un raduno politico in raccoglimento prima della sua veemente oratoria», ha osservato Peter Benson Miller, curatore, insieme a Paulo Pérez Mouriz, dell’esposizione dello scorso anno alla galleria Spazio Nuovo. Il volto ieratico di Lucio Vero (fig. 1), splendida opera conservata al Louvre e risalente a un tipo iconografico noto grazie a diverse repliche, subisce nel naso frantumato l’affronto del tempo che nello scorrere distrugge: davvero una lesa maestà. Nelle rughe profonde di uno sconosciuto si legge l’inevitabile incombere della fine, caratteristica comune a tutti gli uomini, grandi e anonimi. Accanto a queste suggestioni “universali”, l’artista riesce però anche a offrire aspetti più specifici, ponendo in risalto quegli elementi stilistici e ideologici costitutivi delle epoche di realizzazione del pezzo. A cominciare dal periodo tardo-repubblicano e proto-imperiale: nel marmo frigio del Cesare di Arles, ritratto di controversa identificazione riemerso nel 2007 dal fondo del Rodano, si riconoscono le forme realistiche di derivazione ellenistica; il classicismo del ritratto di Augusto risulta allo stesso tempo luminoso e tenebroso grazie al virtuosismo delle luci e delle ombre, con un’allusione al lato oscuro dei leaders assoluti.

Un lato oscuro che adombra anche lo sguardo velato dell’ammiraglio di Augusto, Marco Agrippa: il potere che risulta insondabile. Avanzando l’età imperiale, l’arte del ritratto segue le evoluzioni della politica e, in generale, della cultura, manifestandosi in esecuzioni spesso anche tra loro distanti. Nella summenzionata testa di Lucio Vero (fig. 1), regnante insieme al padre Marco Aurelio dal 161 al 169 d.C., l’uso del chiaroscuro, magistralmente padroneggiato da Roller, riesce a esaltare lo stile barocco della chioma fluente o della barba folta, in evidente contrasto con la superficie piana del volto; proprio i fiammanti boccoli, quali vengono immortalati da Roller, sembrano cosparsi della polvere d’oro con cui Lucio Vero soleva imbellettarsi i capelli, secondo quanto si legge nell’Historia Augusta (Vita di L. Vero, X, 7): Dicitur sane tantam habuisse curam flaventium capillorum, ut capiti auri ramenta respergeret, quo magis coma inluminata flavesceret. Invece, il volto vigoroso di Caracalla, imperatore dal 211 al 217 d.C., sembra allontanarsi dagli effetti barocchi della precedente età antonina, privilegiando, attraverso la durezza dei tratti e la compattezza di capelli e barba, l’idea della forza militare di un impero. Giustamente l’archeologo tedesco Bernard Andreae ha definito “truce” lo sguardo di questo dinasta senza scrupoli, assassino del co-reggente fratello.

Sono queste solo alcune della Figures du pouvoir che Olivier Roller, ormai da diversi anni, ci permette di osservare dal suo sorprendente punto di vista. Un punto di vista che, senza lasciarsi sedurre da una facile retorica, indaga nel profondo, arrivando a scrutare le pieghe del volto, il dettaglio frammentario, le abrasioni delle superfici, traccia impietosa di quella innumerabilis annorum series rispetto alla quale Orazio, con la sua poesia, si proclama immune.

 

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