Perché si può ridurre l'orario di lavoro, senza tagliare il salario.
di Nicola Fratoianni.
"Bisogna aumentare l'età pensionabile!", è il ritornello della politica italiana nelle calure agostane.
La ragione è sempre la stessa: i bilanci, i conti. Un po' le stesse ragioni che spingono i grandi centri commerciali a restare aperti a ferragosto, a Natale, a Pasqua e durante tutte le festività, costringendo i lavoratori a lavorare, mentre dovrebbero avere il diritto di condividere con le famiglie e con chi gli pare, un tempo di libertà sacrosanto.
Ma c'è una volta in cui la politica si preoccupi del bilancio della vita delle persone? Quanto meno, una volta in cui ci si ponga una domanda rispetto all'andamento della vita delle persone che lavorano in questo paese e delle persone che lavorano in maniera saltuaria o non lavorano proprio?
Temo di no. Perché come sempre, la risposta che il sistema offre ai problemi complessi della modernità è un arretramento, sul piano dei diritti, sul piano delle condizioni di vita e di lavoro, sul piano dei salari e della previdenza. "Lavora di più", continuano a dire.
E poco importa se i lavoratori italiani sono di già quelli che lavorano più di tutti in Europa, nel corso di un anno. Sono anche un po' stanco di continuare a ripeterlo, ma lavoriamo quasi 1.800 ore all'anno, rispetto a francesi e tedeschi (già, proprio loro) che ne lavorano in media circa 400 in meno. Uno schiaffo in faccia alla disoccupazione, considerando i numeri dei disoccupati: oltre l'11% complessivi, e quasi il 40% fra i giovani.
Senza tenere conto, poi, un altro aspetto, ovvero dove finisca tutta la ricchezza prodotta, visti i bassi livelli delle retribuzioni italiane, con le disuguaglianze in netto aumento. I poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. In quali tasche si accumula la ricchezza prodotta dalle 1.800 ore lavorate l'anno per ogni lavoratore?
Per chi e per cosa lavoriamo così tanto, in sostanza? Per quale ragione ci ammazziamo letteralmente la vita, lavorando ore e ore al giorno?
Credo sia giunto il momento di porre con forza e decisione nella politica italiana il tema della riduzione del tempo di lavoro, senza rinunce e senza arretramento di retribuzioni, sia chiaro, che come detto, sono già fra le più basse in Europa.
Alla base c'è certamente un obiettivo che potremmo considerare strutturale: ovvero la necessità di redistribuire le quote di lavoro presenti. A maggior ragione se il progresso scientifico, l'aumento dell'automazione nei processi produttivi, provocherà nei prossimi anni una riduzione di posti di lavoro di circa 5 milioni di unità in tutta Europa.
La scienza e gli analisti ci avvisano da anni e già buona parte del tempo a disposizione della politica, per compiere delle scelte è andato perduto, visto che si tratta di un processo iniziato con maggiore vigore alla fine degli anni '80.
Dobbiamo continuare a vivere i processi di automazione come una minaccia sul futuro di milioni di persone, o vogliamo invece incrociare le possibilità che il progresso scientifico offre e puntare sull'automazione per migliorare la qualità della vita delle persone?
Le macchine che lavorano al posto dell'uomo non possono continuare ad essere elementi a esclusivo vantaggio dell'industria, delle multinazionali e dei datori di lavoro, che con costi di produzione nettamente più bassi e tempi di produzione molto più avanzati rispetto a quelli che potrebbe reggere un corpo umano, riescono a estrarre molta più ricchezza e molto più plus valore dal singolo prodotto. Anche questa è una ricchezza che va redistribuita, offrendo ai lavoratori i vantaggi che una maggiore automazione può offrire.
I temi della qualità della vita, della qualità del tempo libero a disposizione, della necessità di liberarsi dal lavoro, inoltre, sono ormai anche questi centrali. In una società a capitalismo avanzato, l'impianto della vita delle persone è centrato fondamentalmente sulla produzione e sulla produttività, con una scarsa considerazione, invece, per tutto ciò che ha a che fare con la qualità, con il tempo a disposizione della persona. Per la verità, anche il tempo libero è entrato con forza nella dimensione della produzione e del consumo, in particolare negli ultimi 20 anni.
Ed è questo aspetto della vita che va liberato, va rimesso nelle mani e nelle scelte delle persone, che sempre più spesso rinunciano alla propria dimensione affettiva, sacrificano la famiglia, le amicizie o anche le proprie passioni, per rispondere al ricatto produttivo/occupazionale.
Le donne più degli uomini sono costrette a tempi irragionevoli, talvolta disumani, per continuare a poter avere una occupazione dignitosa e conciliare con questa i tempi del lavoro di cura.
Credo che la sinistra, quindi, in Italia debba avere questo compito storico, una sorta di missione: porre al centro del dibattito il tema della redistribuzione del lavoro, della riduzione del tempo dedicato al lavoro e del miglioramento della qualità della vita e del mondo in cui viviamo.
Anche perché, come spesso accade nelle dinamiche sociali, in cui i rapporti di forza vengono determinati dalla capacità di intraprendere e organizzare il conflitto, il tema della riduzione dell'orario di lavoro sta diventando sempre più uno strumento di ricatto nelle mani dei grandi gruppi industriali, durante i momenti di crisi. La dirigenza della Bosch a Bari, ad esempio, propone la riduzione d'orario come misura strutturale nel proprio piano industriale, per rispondere alla crisi del diesel, che le stesse multinazionali dell'auto hanno contribuito a creare. Il grande inganno è che la riduzione dell'orario di lavoro è accompagnata da una contestuale riduzione dei salari dei lavoratori fino a un 30% di quanto percepito oggi.
Come dire che per gli errori della dirigenza continuano a pagare sempre e solo i lavoratori, che di improvviso potrebbero ritrovarsi con più tempo libero, certo, ma con stipendi da 700 o 800 euro.
Un inganno inaccettabile. Il momento per prendere in mano un tema così fondamentale per il futuro di milioni di persone, è ora.
Martedì
29/08/17
17:49
Ho letto con attenzione l'articolo in oggetto dato l'interesse del tema trattato, tuttavia non si può non rilevare la sua TOTALE inutilità in relazione al tema che pone. Totale inutilità perchè l'articolo è COMPLETAMENTE FUORI TEMA. Infatti il titolo dell'articolo (che indica il tema che si vorrebbe trattare) è "Perché si può ridurre l'orario di lavoro, senza tagliare il salario" ma nell'articolo NON UNA SOLA PAROLA viene spese in merito a come ciò poterbbe essere reso possibile, affrontando invece un tema completamente diverso ovvero: Prechè si dovrebbe ridurre l'orario di lavoro. Si spiegano infatti le ragioni (condivisibili) per le quali sarebbe opportuno ridurre l'orario di lavoro ma si elude completamente il nocciolo della questione che si è sollevato, ovvero il COME ciò possa essere reso possibile senza tagliare il salario, come se la sola opportunità fosse da se sufficiente per renderlo possibile. Sia chiaro NON affermo affatto che non possa essere possibile ridurre l'orario di lavoro senza tagliare il salario (personalmente spererei lo fosse ma non ho competenze sufficienti per capire come ed in che misura ciò possa essere possibile) ma che da un politico che tratta tale tema ci si aspetta che PUNTUALMENTE spieghi come ciò sia possibile così da poter capire e discutere circa la fondatezza della sua posizione. Fratoianni invece si limita ad evocare il tema come se metterlo in pratica non fosse un problema suo ma di altri. Ma se non è un suo problema allora mi chiedo, perchè mai dovremmo sostenerlo elettoralmente? solo perchè così possa godere di lauti emolumenti? Se la sua è solo una recita allora dovrebbe fare l'attore e non il politico. Diversamente se vuole rappresentare i cittadini allora deve dimostrastre di non essere solo "chiacchiere e distintivo"
Mercoledì
30/08/17
09:04
Perché si può ridurre l'orario di lavoro, senza tagliare il salario’
Presuntuosamente provo a dare io una risposta.
La differenza di prospettiva da cui bisogna partire é notevole perché se il “lavoro” viene analizzato dalla micro economia si giunge a risultati molto diversi che se si analizza coi criteri della macroeconomia.
Facciamo un esempio che calza con la questione e la spiega.
Se ad un imprenditore chiedeste se sia un bene o un mane consentirgli ad abbassare i salari alle sue maestranze non avrebbe dubbi. È un bene perché l’azienda avendo minori costi potrebbe essere più competitiva e vendere di più.
Ma in un’ottica macroeconomica è così?
Se i lavoratori guadagnano meno, potranno acquistare meno beni e servizi, prodotti dalle altre aziende, che necessariamente diminuiranno i loro fatturati con pericoli di perdita di posti di lavoro.
La riduzione dei salari sarebbe un disastro per la economia intesa in forma macro.
Anche per lo Stato la riduzione dei salari sarebbe un male perché diminuirebbero gli incassi a causa dei minori utili dichiarati dalle aziende che vendono meno oltr l’iVA ecc. Il fenomeno è noto e si chiama “moltiplicatore Keynesiano “ dall’economista Keynes che per primo ha valutato le conseguenza recessive prodotte dalla riduzione della spesa pubblica.
Per dare impulso alla economia quindi bisognerebbe aumentare i salari e la spesa pubblica in generale e non ridurla.
Anche l’orario di lavoro potrebbe essere ridotto senza tagliare il salario (equivarrebbe ad aumentarlo) purché resti immutata la concorrenza tra le imprese ovvero i salari venissero aumentati in egual misura, quantomeno a tutte le imprese dello stesso settore produttivo.
Per quanto riguarda la riduzione dell'orario a parità di salario: in una ottica microeconomica, la riduzione delle ore lavorate, a parità di valore unitario dei salari, citata da Frattoianni oggi é impraticabile, ma potrebbe obbedire ad una precisa strategia aziendale finalizzata a fare lavorare meno tutti i dipendenti, piuttosto licenziarne alcuni.
Lavorare meno, mantenendo la medesima retribuzione, in microeconomia può essere fatto solo se si garantisce una maggiore produttività che compensa la maggiore spesa, a meno che non si voglia intaccare il margine.
Questo si può fare in molti modi (investimenti sui macchinari, migliorando i processi, ristudiando la gamma dei prodotti, facendo lavorare i macchinari anche la nona ora ecc) Devo dire che ridurre le ore di lavoro per ridurre i costi è un brutto segnale, perché se é vero che l'azienda ha minori costi variabili del personale (i costi fissi restano inalterati) é anche vero che l'azienda ha anche una minore produzione, quindi per mantenere gli stessi margini lordi, dovrà aumentare il prezzo dei suoi prodotti.
Mercoledì
30/08/17
10:26
Vi sono senz'altro spunti interessanti da approfondire e sicuramente il suo commento entra nel merito della questione molto più di quanto non lo abbia fatto Fratoianni che di sua iniziativa si era cimentato sul tema.
Rispetto a quanto evidenzia, concordando con lei sulle differenze tra macro e micro economia, ritengo vi sia però un aspetto che sottovaluta e che risulta essere un "ostacolo insormontabile" all'affermarsi di quanto ipotizza: il sistema economico nel quale viviamo e specificatamente che questo sia di natura "aperta" (globale) e non "chiusa" (nazionale). Infatti - come lei stesso evidenzia - la possibilità di ridurre l'orario di lavoro a parità di salario è necessario che "resti immutata la concorrenza tra le imprese ovvero i salari venissero aumentati in egual misura, quantomeno a tutte le imprese dello stesso settore produttivo" e ciò - allorchè difficile - è possibile solo in un sistema economico "chiuso" (nazionale) dove lo Stato attraverso apposita legislatura può indirizzare (anche se difficilmente plasmare completamente, almeno in un economia di mercato) tale processo, mentre è sostanzialemte impossibile in un sistema economico "aperto" (globale) dove il singolo Stato non ha competenza alcuna (se non circoscritta alla propria nazione) e dunque in alcun modo si può indirizzare tale processo a scala planetraria (molti altri Stati NON hanno alcun interesse a regolamentare il mercato, venendo da condizioni più arretrate e con, servizi, diritti e coste della vita profondamente diversi da quelli occidentali) con la conseguenza che la minor competitività delle aziende che promuoverebbero la riduzione d'orario (e conseguente riduzione proporzionale della produzione) a parità di salario (che comporterebbe l'aumento del costo per prodotto lavorato) finirebbero solo con il perdere compettitività sul mercato prima e con il fallire poi (ed a rimetterci in questo caso sarebbero soprattutto i lavoratori dato che non avrebbero più un salario). Certamente, come superficialmente ed avventatamente, qualcuno ipotizza, si potrebbe tornare ad un sistema economico "chiuso" (nazionale) con la reintroduzione di dazi e/o barriere ma poi si dovrebbe essere pronti anche alle conseguenze negative che ne deriverebbero, ovvero minor progresso, minor disponibilità di beni, minor accesso a beni e servizi perchè la minor concorrenza ne aumenterebbe i costi (se la perdita di potere di acquisto negli ultimi anni è stata contenuta è solo grazie all'importazione di merci estere a basso costo, senza la cui disponibilità le famiglie a basso reddito non sarebbero state in grado di mantenere un sufficiente tenore di vita), aumento del costo della vita (l'italia esporta soprattuto beni a valore aggiunto mentre importa soprattutto materie prime, se ristabilissimo dazi/barriere dall'estero diminuirebbero drasticamente gli acquisti dei nostri beni all'estero, dato che anche se di minor qualità possono essere reperiti anche diversamente, perdendo introiti ma soprattutto NOI non potremmo smettere di acquistare materie prime, o vogliamo riscaldare casa con la legna ed illuminarci con le candele?, che a causa dei dazi aumenterebbero di costo, rendendoci più poveri)e minor ricchezza (dato che la bilancia dei pagamenti esteri italiana è positiva, ovvero ricaviamo dalle esportazioni più di quanto spendiamo con le importazioni e dunque se smettiamo di importare o rendiamo l'importazione non conveniente, gli altri Stati renderanno svantaggioso acquistare dall'Italia e dunque perderemmo riccezza) con conseguente perdita di posti di lavoro. Se la globalizzazione si è affermata non è per un disegno di qualche spectre mondiale o delle sporche e cattive multinazionali (che certo non sono degli angioletti) ma semplicemente perchè comporta più vantaggi che svantaggi e solo politici cinici ed indifferenti al bene dei cittadini come Salvini e buna parte della destra italiana (e - purtroppo - anche una parte della sinistra) possono ipocritamente tuonare contro gli svantaggi (che ci sono) facendo credere che i vantaggi acquisiti resterebbero comunque, quando invece sono intrinsicamente legati al processo e dunque soggetti a scomparire in poco tempo se cambiassimo i rapporti commerciali con il resto del pianeta.