di Dario Bellini - Il Manifesto.

Ho conosciuto Gabriel Juan Caro Montoya a Roma nei primi anni 70. Un giorno dell’estate del ’72 mi disse che avrebbe incontrato Gabriel García Márquez che era di passaggio a Roma e mi chiese di andare con lui all’appuntamento per scattare delle foto e intervistare il grande scrittore. Alloggiava all’hotel Jolly di Porta Pinciana dove lo incontrammo e decidemmo di spostarci a Villa Borghese per l’intervista.

Loro due sembravano grandi amici e Gabo rispondeva a tutte le domande anche a quelle più politiche che Gabriel gli faceva su ogni argomento, sulla situazione internazionale, sulla lotta armata in Colombia e in particolare sul coinvolgimento di García Márquez per la liberazione dei prigionieri politici (molto prima dell’organizzazione Habeas che Marquez fondò nel 1979).

Mi era sembrato strano che García Márquez, già molto famoso per Cent’anni di solitudine, gli avesse concesso l’intervista, ma Gabriel Caro mi aveva confidato che Gabo era suo amico ed era stato proprio lui a farlo evadere dal carcere pagando le guardie per organizzare la sua fuga e ad aiutarlo ad arrivare in Europa. Non mi aveva raccontato altri particolari, anzi mi diceva di non dire niente a proposito per ovvie ragioni che naturalmente riguardavano lo scrittore e lui stesso come rifugiato in Italia.

Gabriel Caro era pur sempre un evaso dal carcere e della sua terribile storia personale, iniziata quando, ancora studente, tentò di dirottare un aereo per Cuba e della strage che c’era stata all’aeroporto di Cartagena. Ne parlava poco e senza grandi particolari, omessi anche nel suo romanzo A eccezione del cielo pubblicato da Savelli nel ’77, dove racconta la sua vita e alcuni episodi di lotta in Colombia, di una fuga dal carcere, ma niente del fallito dirottamento aereo nel 1969, finito in una cruenta sparatoria. Gabriel rimase gravemente ferito alla testa, in coma per mesi all’ospedale e in carcere ancora molto malato fino alla sua evasione. Per ragioni di clandestinità o personali Gabriel avrebbe omesso alcune cose nel racconto come quella del dirottamento sostituendolo con un altro episodio.

C’è invece nel libro (pubblicato nella collana «il pane e le rose») un intervento di Lietta Tornabuoni che casualmente fu testimone nel 1969 della sparatoria all’aeroporto di Cartagena, e che riportò sulle pagine dell’Europeo le confuse e drammatiche testimonianze raccolte quel giorno all’aeroporto.

Probabilmente A eccezione del cielo deve essere stato lo stesso libro che Gabriel Caro stava scrivendo nel 1971 quando per la prima volta incontrò Márquez a casa sua (come descritto nell’intervista), dove parlarono tutta la notte, della guerriglia, della situazione politica, del suo libro e del futuro.
Due anni dopo, come si legge nell’intervista, si incontrarono per la seconda volta a Roma quando andammo ad intervistarlo a Villa Borghese: «..via via che la pellicola della macchina fotografica girava parlammo di tutto… quando seppe ciò che volevo mi chiese di garantirgli la serietà della pubblicazione e del giornale… in certi paesi ho sempre rifiutato di essere fotografato e di concedere interviste.»

Alla fine dell’intervista di nuovo sulla Colombia e sui prigionieri politici alla domanda se Márquez ha tra di loro degli amici: «Uno che mi sta vicino, arrivederci fratello. Devo partire» – disse.

Gabriel García Márquez era davvero di passaggio a Roma e ripartì subito, e qualche giorno dopo Juan Gabriel Caro Montoya propose l’intervista e le mie fotografie all’Espresso. Era Marialivia Serini che si occupava di America Latina, ma passato più di un mese non ci fu risposta (forse era un periodo di un Espresso conservatore.. non so dire se a destra o sinistra). L’intervista non fu pubblicata e presto venne dimenticata. Gabriel Caro Montoya voleva fare il giornalista, come è scritto sul sito The journalists Memorial era corrispondente di El Mundo dall’Italia e ancora, per qualche anno, visse a Roma.

Ci siamo visti ancora, dell’intervista non se ne è più parlato. Si era comprato una macchina fotografica e aveva deciso seriamente di fare il reporter, purtroppo non ebbe fortuna: partito per un reportage in Colombia sul narcotraffico fu assassinato a Medellìn nel 1989. Aveva 37 anni.
L’intervista fu allora dimenticata completamente e purtroppo molte delle persone che ne erano a conoscenza non ci sono più, ma l’archivio, tra fotografie, negativi e documenti vari se non brucia restituisce: in questo caso a più di 40 anni dopo quel giorno a Roma quando Gabriel García Márquez l’ha rilasciata.

L’intervista di Gabriel Juan Caro Montoya

Il 13 maggio, in uno dei più fortificati, vecchi porti dell’America latina -Cartagena de Indias – ho conosciuto il portentoso scrittore che con il suo Cien años de soledad ha scarnificato la tragica realtà latinoamericana e messo in difficoltà il governo colombiano meritandosi per sempre il processo e la condanna di un tribunale da inquisizione composto da un cardinale primate Concha Córdova, dall’alta curia bogotana e da alcuni generali dell’esercito nazionale, appartenenti alla beata Opus Dei, incaricati di detenere il libro delle celle sotterranee della dogana. Fino a nuovo ordine.

Quando la fama di Gabriel giunse anche in Colombia, beffando le guardie doganali e affogando nel ridicolo la condanna dei generali, Cien años de soledad cominciò a circolare nel paese: ma con un divieto di lettura per i minori d’età e di circolazione nelle scuole pubbliche e private, Divieto accompagnato da minacce di sanzioni celesti e terrene diffuse via radio e dalle pagine dei giornali, per i padri che non impedissero ai figli di leggerlo, per i professori che consentissero la sua introduzione negli istituti di educazione, per i minorenni scoperti a chiedere a quanti lo avevano letto qualcosa sulle storie dei gitani, sulle notti di sessanta atti d’amore e un barile di sperma, sulle guerre del generale Aureliano o sul massacro fantasticamente reale perpetrato dalle compagnie bananiere.

Prima di presentarmi a casa dei suoi genitori, corressi, ruppi e riscrissi i capitoli di un libro che, nelle mie intenzioni, doveva servirmi a raggiungere una meta più importante della sua pubblicazione.

Con il permesso della madre e scavalcando la testa di un nugolo di nipoti di lei, negri e bianchi, mi accomodai in salotto aspettando che l’inventore delle guerre fantastiche e di un villaggio che in fondo tutta l’America spagnola tornasse da un viaggio e si apprestasse a sfogliare una montagna di riviste e il mio libro.
Dopo le dieci un clacson suonò alla porta principale. Pensai che fosse la polizia o un esercito di detectives che, mitra alla mano, venivano a far rivivere un inferno di pallottole dal quale non so come ero riuscito a sfuggire qualche tempo prima.

Ligia, la minore delle sorelle, aprì la porta. Era García Márquez. Semplice, senza calze, cappellone, sugli ultimi gradini della gioventù. Si sedette di fronte a me e cominciammo a parlare. Parlammo della guerriglia, della sua situazione, del libro e del suo futuro. E così conobbi il suo passato.

Nato ad Aracatata un piccolo paese perduto sulle rive del Rio Magdalena cresciuto in un inferno verde di un centinaio di chilometri coltivati a banane e sperduto entro una turba di bambini di colore dai capelli biondi e dagli occhi azzurri figli di nessuno e iscritti all’anagrafe semplicemente nati da un’illecita relazione fra una negra sconosciuta e un gringo protestante o un marinaio norvegese e non battezzati, martirizzato dal recente massacro di tremila operai in sciopero dipendenti della United Fruit Company e dalla minaccia di una guerra civile tra liberali e conservatori quotidianamente pronosticata dai contadini dell’hacienda Macondo e dal suo stesso nonno « un ricco patriarca, proprietario di un pensionato per bambine il cui solo rumore udibile era quello prodotto dai vasi da notte che fabbricando pesci d’oro in un gran piatto posto davanti alla porta di casa spendeva gli ultimi ricordi della vecchiaia in lunghissime storie e lezioni di alchimia impartite ai nipoti al solo scopo che un giorno potessero scoprire il mercurio ermetico e trovare la pietra della vita».

La ricerca della pietra della vita e del mercurio ermetico finirono per Gabriel il giorno in cui i suoi genitori scoprirono che si aggrovigliava il cervello con cordoni di letteratura. Convinti che in un seminario avrebbe dimenticato le predizioni dei contadini di Macondo, consapevoli più di ogni altro di ciò che erano capaci di fare i generali bogotani addestrati all’accademia militare dell’itsmo di Panama e perché non si impelagasse nella vita animale del suo villaggio stramaledetto da Dio e dai mille preti che avevano dovuto abbandonarlo perché non guadagnavano neppure quel che basta per mangiare, perché nessuno si sposava e i minorenni avevano la brutta abitudine di fare all’amore con le mule perfino nelle navate della vecchia chiesa annegata di solitudine, lo mandarono a Chinquinquira, una città del’interno dove tutti dicevano di essere figli di un qualche conte e per dimostrarlo usavano scarpe, vestiti di panno e parlavano un corretto castigliano. Il convento gli servì a farsi degli amici e a risvegliare il suo spirito antireligioso.

Il ritorno al villaggio natale fu rapido. Poi vennero il liceo e il primo anno di università a Cartagena, La mancanza di denaro per pagare la pensione e la sua sfacciataggine nei confronti dei professori di diritto gli chiusero le porte dello studio e lo gettarono sulla strada. Dalla miseria delle pensioni cartagenensi controllate dalle beghine amiche del vescovo, vide che le profezie dei contadini di Macondo – nemici dichiarati dei discorsi lunghi un giorno pronunciati da senatori giunti a Aracataca in un vecchio treno che di treno aveva solo la ferraglia esterna dei vagoni e la caldaia – esplodevano in una realtà allucinante: la violenza.

Una mai dichiarata guerra civile scatenata da due famiglie messe nel sacco e semisconfitte da un focoso liberale Jorge Eliécer Gaitan, più preoccupato dei problemi del popolo che di riempirsi il portafoglio. Anche i peones di Macondo, i negri-biondi di Aracataca imbevuti di morte e secoli di schiavitù nelle compagnie bananiere dei gringos, videro arrivare la guerra e la affrontarono con il fucile e il machete.

La piena di sangue di quasi mezzo milione i contadini cominciò a calare il giorno in cui un generale più cattolico del capo dei cattolici detronizzò l’ultramontano Laureano Gomez.

In quegli anni García Márquez scriveva reportage sullo Espectador di Bogotà e compiva i primipassi come scrittore. Una casa editrice argentina gli rispediva un suo libro con una nota: «Cambi mestiere o impari a scrivere».
Ci lasciammo alle prime ore dell’alba, lui rimase con il mio libro, io con la preoccupazione di trovarmi alla svolta della strada o, più tardi, in qualsiasi angolo del secolo, davanti ai mitra dei militari.

Due anni dopo, quasi per caso, lo incontrai di nuovo. E parlammo di tutto quello che ci venne in testa, senza la preoccupazione di avere dietro alle spalle un orecchio teso o un barile di merda, strumento di tortura montato sopra una delle automobili della Mano nera. Quando seppe ciò che volevo, mi chiese di garantirgli la serietà della pubblicazione e del giornale.
«In certi paesi ho sempre rifiutato di essere fotografato e di concedere interviste. Non voglio che mi tirino addosso merda con il divismo fabbricato da certo giornali scandalistici. Vado a mangiare con questo attore o con quel regista perché sono amici miei, ma sto ben lontano dai giornali scandalistici». Via via che la pellicola della macchina fotografica girava, parlammo di tutto.

Lascerai che «Cien años de soledad» venga portato sugli schermi cinematografici?
No, lo deformano, lo distruggono e impediscono che la gente ne riceva il messaggio

Quando verrà pubblicato il tuo ultimo libro «El otoño del patriarca»?
Un giorno o l’altro, quest’anno o il prossimo, non ho fretta.

Dopo aver firmato il documento che chiedeva al governo spagnolo la revoca della condanna a morte pronunciata contro i baschi, hai avuto problemi con il governo franchista?
Non faccio politica in Spagna, a me interessa l’America latina. E poi il governo spagnolo non vuole far baccano con me, far risuonare la grancassa di fronte a tutto il mondo.

Quando tornerai in Colombia?
A giugno.

Qual è la tua posizione di fronte al governo colombiano?
Guarda, questo è il paese più difficile da cambiare in tutta l’America latina. Gli hidalgos ne sfruttano le antichissime strutture ultrareligiose, moraliste e repressive – create nel secolo scorso – per soffocare il popolo e distruggere ogni germoglio di libertà. Questa repressione ha ridotto il popolo in un tale stato di disperazione che ormai vuole solo una guerra per farla finita con quelli che comandano, vuole il sangue, il governo lo ha costretto a volerlo.
Io stesso ho chiesto al presidente Pastrana di sospendere le torture nelle carceri e di liberare i prigionieri politici detenuti a vagonate nelle galere e nelle colonie penali. Ha risposto che non può farci niente, che ha le mani legate dai militari, che questi ultimi con il pretesto di moralizzare il paese e stabilire l’ordine si sono impadroniti del potere. Non fanno un colpo di stato perché non ne hanno bisogno. Gli conviene di più tramare facendosi scudo della democrazia. I miei amici mi hanno chiesto di aiutare i loro amici con dichiarazioni sulla stampa che gettino merda sul governo. Ma a che cosa serve? A un bel niente. Ho fatto invece un’altra cosa più positiva. Con i diecimila dollari guadagnati a un premio letterario a Oklahoma ho fondato un centro per aiutare i prigionieri politici. E non mi sbaglio nel dare l’aiuto. Lì tutti i prigionieri politici sono di sinistra. Non ho mai conosciuto un prigioniero politico di destra. Poi penso che bisogna cercare di unificare i due movimenti di guerriglia, la Farc (Forze armate rivoluzionarie di Colombia) e l’Eln (esercito di liberazione nazionale) oggi divisi per colpa del partito comunista. La lotta armata è la sola via per cambiare il sistema colombiano.

Ma il sistema colombiano non si oppone alla tua azione in favore dei prigionieri politici?
No, utilizza la mia politica per dire al popolo: «vedete? Vi convincerete che ciò che dicono anarchici e guerriglieri è completamente falso? Questo paese è democratico, la nostra è una democrazia reale, permettiamo perfino che Gabriel García Márquez aiuti i ribelli» . Ma le cose non stanno così. Il governo ha paura di me. In America latina noi scrittori siamo vacche sacre. Mi consentono certe cose solo per paura che il mondo venga a sapere che razza di gente ci governa. A Cuba succede il contrario. Lì Castro ha chiamato «cani» certi scrittori latinoamericani, ha tolto loro le cariche che avevano nella Casa de las Americas, ha proibito loro di entrare nell’isola.

Tu hai mai firmato la dichiarazione in difesa dello scrittore Padilla e contro Castro?
No, oltretutto ero in Colombia e la dichiarazione fu firmata a Parigi. Le mie relazioni con Castro sono ottime, tanto che quest’anno mi ha invitato e andrò a Cuba.

So che sei amico di Allende. Che cosa pensi della situazione cilena? Quale sbocco avrà?
Sono amico di Allende e anche del ministro della cultura. Conosco la situazione cilena. Frey ha lasciato il paese in bancarotta con un debito estero di quattromila milioni di dollari e, politicamente, nel caos. Il governo della democrazia cristiana si è dimostrato incapace di tutto, ha venduto il paese ai gringo e ha fottuto il popolo. Allende lo sta rimettendo in sesto. Strano a dirsi, con la vittoria di Allende è successo il contrario di quanto è successo con la rivoluzione cubana. Tutti abbiamo sentito con emozione la vittoria di Castro e abbiamo accolto con freddezza quella di Allende. Per me è il miglior statista del mondo. Fa arroccamento e mosse strategiche geniali per colpire gli avversari. Solo i critici che vedono il suo governo dal di fuori lo definiscono fallito, facendo orecchio da mercante per quanto riguarda ciò che è successo: l’attentato della ITT, le lotte in senato contro i fascisti e altro. Ma non prende in considerazione che il popolo, nonostante sia sottoposto a razionamento, nonostante sia minacciato dalla destra, nonostante sia sottoalimentato, ha votato per Allende durante le scorse elezioni. I cileni sì che hanno coscienza politica. Il popolo cileno sì, sa dove va.

Oltre ai problemi di censura che «Cien años de soledad» ha avuto in Colombia, hai avuto difficoltà di diffusione in altri paesi?
Sì, in Russia. Lo hanno pubblicato da un giorno all’altro, senza dirmi niente. È stata un’esplosione da un punto di vista editoriale: centomila copie vendute in meno di un mese. Però, non solo lo hanno pubblicato senza avvisarmi, ma hanno anche soppresso le scene d’amore e altre cose che mal si accordavano con il socialismo sovietico. Di fronte a questo abuso ho protestato. La risposta fu un fiume di insulti da parte della Pravda. Allora ho chiesto i diritti d’autore, ma me li hanno rifiutati. Poi me li hanno riconosciuti, ma non hanno valore retroattivo. Così resto sempre fregato.

Da anni si parla della morte della letteratura, della morte del romanzo, e tanto più lo si fa oggi, nella società industriale in cui si parla quasi esclusivamente di ricerca, di tecnologia.
Non solo si è parlato di morte del romanzo, ma se ne parlerà sempre. Da quando mi sono seduto a un tavolo per scrivere le prime righe del mio primo libro, ho sempre sentito circolare queste balle. Vi sono periodi, lunghi periodi nei quali il romanzo sonnecchia, ma poi arriva un grande romanziere e lo risveglia, restituisce alla gente la realtà quotidiana con altri occhi. E alla gente piace, la gente si diverte, è curiosa del fatto che un’altra persona gli racconti la sua stessa storia, la sua stessa vita, i suoi stessi problemi quotidiani. I grandi romanzieri raccolgono e restituiscono alla gente ciò che un sacco di mediocri e di cattivi romanzieri non sono stati capaci di fare. Questa storia della fine del romanzo è una grossolana invenzione: in fondo si tratta solo della fine di un buon romanziere e della mancanza di un altro che lo sostituisca. Il romanzo si sveglia quando nasce uno scrittore capace di emozionare, di far ridere, di far piangere e anche di intenerire i lettori.

Senti, come vanno i movimenti rivoluzionari venezuelani? Che cosa ti ha spinto a dare cinque milioni di lire al M.A.S.?
È l’unico movimento venezuelano che possa fare qualcosa. È nato da una scissione del partito comunista e oggi ha un potere maggiore del partito comunista stesso. Ha messo da parte il marxismo che viene dall’esterno, il marxismo ortodosso, per radicarsi nella realtà venezuelana.

Tra i tuoi amici ebrei c’è qualcuno d’accordo con il governo di Israele?
No, del resto anche all’interno di questo paese ci sono correnti di sinistra che però hanno le mani legate dalla classe dirigente. Israele per quanto la riguarda, non ha problemi. Li hanno invece i palestinesi. Sono loro che hanno bisogno di un pezzo di pane, di un pezzo di terra, non fosse altro che per morire, per trovare sepoltura. Israele non ne ha bisogno.. Così i palestinesi stanno compiendo le loro azioni di guerra fuori dal Medio Oriente perché sono disperati, perché li stanno ammazzando, perché la classe dirigente israeliana li ha spogliati di tutto, perfino del diritto alla vita. Certo, non basta dire: il problema è molto più complesso.

Per tornare alla Colombia, l’anno prossimo ci saranno le elezioni per il nuovo presidente. Chi credi salirà al potere?
Un ex presidente. Sappiamo benissimo che, dal secolo scorso, abbiamo sempre la stessa gente al potere, Sempre gli stessi padroni del paese, gli stessi milionari, gli stessi proprietari terrieri. Il popolo vuole la rivoluzione, i guerriglieri fanno quello che possono e lui, Carlos Lleras Restrepo, farà merda del paese. Ora sta fuori dalla Colombia lambiccandosi il cervello per ritornare con una «magica» formula di governo: una formula, naturalmente, ultrarivoluzionaria, più avanzata degli stessi programmi politici dei guerriglieri. Il pericolo è che una simile formula corrisponda alle aspettative del popolo. Demagogicamente promettendo senza poi mantenere, Lleras Restrepo sarà il prossimo presidente, metterà il popolo in un pantano e completerà una repressione che non ha avuto il tempo di portare a termine durante il mandato precedente.

Che fine fanno i prigionieri politici sotto il regime di Lleras?
Chissà se potranno vivere fino a vederlo. Le carceri sono pieni all’inverosimile di prigionieri politici. A Barranca hanno condannato parecchi operai delle compagnie petrolifere accusati di incitare i compagni allo sciopero e i diversi consigli di guerra stanno processando più di quattrocento membri di una rete sovversiva. Meno male che sono tutti latitanti.

Hai qualche amico tra loro?
Uno che mi sta vicino. Arrivederci hermano, devo partire.

García Márquez, lo scrittore dell’epopea latinoamericana e della storia colombiana – in tutto diverso dall’altro grande, Jorge Luis Borges, i cui libri in America latina danno l’impressione di essere costruiti in una fabbrica di computer atomici, estraneo e indifferente com’è alla cultura della sua terra. Gabriel Márquez, impegnato a restituire il loro vero nome alle particolari situazioni della sua terra – perché anche il nome degli oggetti o delle situazioni sono finite nelle tasche dei colonizzatori e impegnato in una lotta politica, in cui crede con sincerità, come crede nella rivoluzione cubana e in Salvador Allende, torna in Colombia deciso a fare qualcosa per i prigionieri politici e per i gruppi tesi a distruggere un sistema che si presenta al popolo con lo stesso programma del secolo passato, ma promettendo mille riforme per ottenere dei voti che in definitiva servono poco dato che, se non si possono ottenere attraverso un mercato, si possono sempre strappare puntando un fucile.

García Márquez avrà molto da fare in un regime che, spaventato dallo scarso numero di votanti delle passate edizioni, appena un trenta per cento, ha ingrassato il fucile, sta preparando i mirages, chiudendo la facoltà di sociologia dell’intero paese perché sovversive, incarcerando e torturando i medici perché protestano contro le strutture, massacrando i contadini e incolpando dei massacri i guerriglieri.

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