Alfonso Gianni

 

Il Jobs Act è pas­sato anche alla Camera. Tor­nerà per l’approvazione defi­ni­tiva al Senato, ma non si atten­dono sor­prese. Renzi può por­tare a Bru­xel­les lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Sta­tuto dei diritti dei lavo­ra­tori, per­ché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé inde­bo­lito se non annul­lato. Hanno votato in 316 a favore del dise­gno di legge del governo. La mag­gio­ranza asso­luta, per un voto, di una camera di nomi­nati già poli­ti­ca­mente dele­git­ti­mata dalla boc­cia­tura del por­cel­lum da parte della Corte Costi­tu­zio­nale. Mal­grado ciò quella mag­gio­ranza si è assunta la respon­sa­bi­lità di can­cel­lare con un pul­sante decenni di sto­ria del con­flitto sociale che ave­vano creato il “caso ita­liano” durante i “trenta anni glo­riosi” del capi­ta­li­smo occidentale.

Eppure que­sta volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esa­ge­rato dire che si è trat­tato di una vit­to­ria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incas­sare il dis­senso aperto della mino­ranza del suo par­tito.
Civati ha votato no, men­tre Fas­sina e Cuperlo hanno tra­sci­nato fuori dall’Aula una tren­tina di depu­tati, assieme a quelli di Sel, dei Pen­ta­stel­lati e delle oppo­si­zioni di destra. A sua volta Ber­sani ha votato un sì per pura disci­plina e palese nulla con­vin­zione. E così sarà stato pro­ba­bil­mente per diversi altri. La pre­sunta media­zione sul testo non ha tenuto né nel merito né poli­ti­ca­mente. Il dis­senso non è rien­trato, è esploso.

Del resto è dav­vero dif­fi­cile con­si­de­rare un miglio­ra­mento quanto è stato pre­ci­sato alla Camera rispetto al Senato. Per i licen­zia­menti per motivi eco­no­mici non c’è alcun rein­te­gro, solo l’indennizzo rap­por­tato alla anzia­nità di ser­vi­zio. Il rein­te­gro com­pare solo per i licen­zia­menti chia­ra­mente discri­mi­na­tori e per quelli disci­pli­nari risul­tati privi di fon­da­mento alcuno, secondo tipi­ciz­za­zioni ulte­riori riman­date ai decreti dele­gati.
Chi mai volendo licen­ziare potrebbe impe­go­larsi in que­ste tipo­lo­gie potendo ada­giarsi sull’andamento eco­no­mico dell’impresa? Qui si col­pi­sce non solo il diritto al lavoro del licen­ziato, ma anche il ruolo della magi­stra­tura nell’ inter­vento per rein­te­grare tale diritto. Due pic­cioni con una fava. Nean­che il nemico per eccel­lenza dei giu­dici, Ber­lu­sconi, avrebbe potuto tanto.

Nel frat­tempo Squinzi può sognare, si stro­pic­cia gli occhi, ottiene più di quanto pre­ten­deva e spe­rava. Non ha nep­pure avuto biso­gno di chie­derlo. Anzi, Squinzi aveva com­bat­tuto per la pre­si­denza della Con­fin­du­stria con­tro Bom­bas­sei, dichia­rando pro­prio che l’articolo 18 non era una priorità.

Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua let­tera alla Com­mis­sione affin­ché fosse indul­gente nel valu­tare i conti della legge di sta­bi­lità. Il giu­di­zio defi­ni­tivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche gra­zie alla appro­va­zione del Jobs Act che, secondo il nostro mini­stro dell’economia, garan­tirà una ripresa dell’economia e il soste­gno al sistema pen­sio­ni­stico. Come ciò possa avve­nire a colpi di pre­ca­riato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismi­sura, è un mistero da riman­dare al mittente.

La novità tanto sban­die­rata è il famoso con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti. Le moda­lità della arti­co­la­zione di que­ste tutele sono ancora ignote, per­ché riman­date al testo di decreti dele­gati che even­tual­mente pas­se­ranno solo dalle com­mis­sioni par­la­men­tari — ma non dall’aula — per un parere non vin­co­lante. Tut­ta­via è fin d’ora scar­sa­mente cre­di­bile che un padrone assuma con que­sta forma, quando può uti­liz­zare, gra­zie al decreto Poletti, con­tratti a ter­mine uno in fila all’altro senza doverne moti­vare la ragione. Para­dos­sal­mente, ma non troppo, pro­prio il con­tratto inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti spin­gerà ancora di più l’acceleratore sulla totale pre­ca­riz­za­zione dei rap­porti di lavoro per i nuovi assunti.

Fare sin­da­cato e costruire una nuova coa­li­zione sociale per una nuova sini­stra sarà più dif­fi­cile, ma ancora più neces­sa­rio ed urgente. Una dimen­sione euro­pea è indi­spen­sa­bile poi­ché il sistema non sop­porta legi­sla­zioni nazio­nali pro­tet­tive dei diritti e forme con­trat­tuali che vadano al di là del sin­golo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acro­nimo: Jump­start Our Busi­nes­ses (come l’omonimo ame­ri­cano del 2012) cioè «met­tiamo in moto le nostre imprese». Di con­tro, quel popolo di sini­stra orfano di una vera sini­stra popo­lare ritro­va­tosi in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, si rimette in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo tanti anni. Que­sta sarà la risposta.

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