Di Jacopo Venier*

PERUGIA - Non è facile provare a ragionare sulla manifestazione del 15 ottobre quando non si è ancora diradata la nebbia di emotività che si è alzata dalle auto bruciate e dai lacrimogeni. Dieci anni dopo Genova ancora una volta un grande corteo è stato violentato ed una città si è sentita ferita. Se però ci attardiamo troppo nelle reazioni “a caldo” rischiamo di lasciare troppo tempo a strumentalizzazioni che possono determinare una percezione errata di ciò che è successo ma soprattutto del perché è successo.

LA SORPRESA

Che in Italia ci fossero gruppi organizzati che praticano lo scontro violento in occasione di manifestazioni e proteste non è, spero, una novità per nessuno. Di questa estate sono gli scontri violenti Val di Susa per non tornare all’assalto ai palazzi del potere lanciato il 14 dicembre 2010. Io non so se a fare quegli scontri sono stati gli stessi che hanno agito a Piazza San Giovanni ma le pratiche sono assai simili. Inoltre che la protesta degli “indignados” potesse essere l’occasione per azioni contro la polizia e saccheggi lo avevano anticipato le dinamiche di piazza in Grecia ed in Inghilterra. Colpisce quindi la “sorpresa” con cui molti “dirigenti” della sinistra politica, sociale e sindacale hanno reagito agli scontri del 15 ottobre. Mentre i militanti e le tantissime persone che sono venute quasi spontaneamente a Roma potevano legittimamente non sapere che cosa covava in pentola che la situazione fosse “difficile” era ben chiaro non da giorni ma da settimane. In realtà due sono le ragioni che spiegano questa “sorpresa” che oggi risulta ad alcuni molto comoda. Non sapere è un alibi che accredita l’idea che “i neri” siano degli alieni sbarcati a Roma da un’altra galassia e quindi preserva la verginità politica di chi cerca legittimazione. C’è poi una irresponsabilità diffusa di un ceto politico dei movimenti che ha sperato fino all’ultimo che gli incubi non si materializzassero. Per esorcizzare gli incubi infatti si era fatto “un patto” di gestione della piazza all’interno del coordinamento 15 ottobre e si sperava che questo “patto” potesse in qualche modo estendere la propria validità anche nei confronti di chi a questi “tavoli” non partecipa e non riconosce alcuna legittimità. Questa volta però qualcuno ha voluto rompere il giocattolo e qualcun altro gli ha lasciato fare. Così la prima vittima degli scontri non sono stati gli indignati ma una pratica di rapporti tra gruppi, organizzazioni e “sensibilità” che, da Genova in poi, aveva determinato le modalità, ed anche i contenuti, con cui si è scesi in piazza. Il balletto interno tra “moderati” e “incazzati” che c’è sempre stata, questa volta non ha prodotto un compromesso forte ma sia la piattaforma della manifestazione che le pratiche di lotta scelte avevano scontentato una larga fetta di movimento che le riteneva inadeguate e schiacciate sulle esigenze politico/elettorali di alcune realtà. Su questa contraddizione si sono buttati “i neri”.

UNA REALTA’ POLITICA

Per nascondere le proprie difficoltà o per rimuovere il problema in molti hanno provato a relegare le azioni del 15 ottobre nella categoria del teppismo con la variante dell’infiltrazione. E’ probabile che tra coloro che hanno fatto gli scontri ci fossero anche occasionalmente dei teppisti ed è sicuro (se la polizia fa ancora minimamente il proprio lavoro) che ci fossero degli o molti infiltrati. Questo però non cancella il fatto che il blocco nero ha agito politicamente e non solo “militarmente”. Innanzitutto va detto che le azioni dei “neri” (uso questo nome fino a quando non se ne daranno uno loro) non sono state direttamente conflittuali con altri gruppi od organizzazioni presenti al corteo come succedeva invece negli anni ’70. Questi gruppi hanno “utilizzato” il corteo per cercare il contesto necessario a al contatto violento con la polizia ma il corteo non era affatto un loro obiettivo “militare”. Il loro è stato invece un tentativo politico di inserirsi in un contesto ed egemonizzarne piattaforma e pratiche. Ciò a cui mirano è costituire l’avanguardia di un sentimento diffuso che, in assenza di ogni credibile canale di rappresentanza politica, si alimenta della frustrazione e della rabbia per una situazione senza sbocco apparente. Le stesse analisi degli “indignados” spagnoli indicano nella politica, tutta la politica, una casta impermeabile al servizio del capitalismo finanziario. Si tratta ormai di una opinione diffusissima, e fondata, a cui l’azione dei “neri” è, nei fatti, una delle risposte possibili. L’altra risposta, quella della paziente e difficile ricostruzione di una conflittualità di massa democratica e partecipativa, è una scelta difficile di fronte ad una crisi immanente che toglie, non solo reddito, ma speranza e futuro. I ragazzi dell’onda che urlavano “ la vostra crisi non la paghiamo” dopo due anni si rendono conto che invece la stanno pagando tutta e l’ansia genera quella rabbia che, in assenza di alternative politiche, può anche sfociare in violenza.

LA VIOLENZA

Lo stantio dibattito su violenza e non violenza interessa ormai solo le generazioni che hanno conosciuto sulla loro pelle l’esito tragico della lotta armata. Ci sono in campo però altre generazioni cresciute in un contesto ben diverso. Mentre per i primi le pistole sono quelle delle BR i secondi l’evocazione della scorciatoia “armata” è dai Ministri della Repubblica. Se Bossi ha “la pallottola in canna” allora è difficile chiedere ad un ragazzo di vent’anni di escludere a priori di far valere le proprie ragioni “in un modo o nell’altro” come ho avuto modo di documentare su Libera.tv. Quando poi a pretendere “nonviolenza” dai manifestanti sono coloro che bombardano l’Afghanistan o la Libia, che hanno giustificato e promosso i torturatori di Genova, che chiudono i migranti nei campi e mandano in carcere, a volte a morire ammazzati, chi fuma uno spinello, allora il problema si aggrava. Per spiegare a milioni di persone che i propri diritti e la propria libertà può essere conquistata con la forza della ragione ci vogliono personalità e storie politiche credibili e non si vedono molti Ghandi intorno a noi. La violenza è parte della natura umana e quando la società regredisce, quando le strutture sociali si incrinano, quando lo sfruttamento e la compressione della libertà diventa ogni giorno più brutale è inevitabile che in qualche forma questa si manifesti. Del resto mi è difficile capire come qualcuno possa pensare di cambiare il mondo, “espropriare” le banche o far pagare i ricchi senza imporre queste decisioni. Certo chi governa (potrebbe in teoria capitare anche al famoso 99%) parla di uso legittimo della forza e non di violenza. Ma la sostanza non cambia. La forza è la violenza che esercita “legittimamente” lo Stato. A volte questa è usata per affermare uguaglianza, diritti sociali e democrazia ma molto più spesso è usata per imporre sfruttamento e passività. Non esiste quindi una organizzazione umana priva di violenza. Forse invece di moralismi avremmo bisogno di lucidità per evitare di ripetere noiosamente dibattiti da anni settanta ed affrontare la realtà attuale prima di tutto interrompendo il circuito violenza- repressione-violenza. I “neri” hanno lanciato la loro sfida. Bisogna raccoglierla sul piano dove essa è più insidiosa e questo non è certo il piano “militare”. Chi pensa che il problema sia organizzare il nostro servizio d’ordine sta indicando per ingenuità o per calcolato cinismo la strada per la catastrofe. Ma cosa ci sarebbe da fare? Organizzare “noi” una banda di picchiatori capaci di “tenere a bada” “loro” e magari anche la Polizia? A parte il fatto che i servizi d’ordine nel passato sono degenerati in bande armate o hanno “determinato” la linea delle organizzazioni contando sui propri “argomenti”, chiedere al movimento di scegliere questo terreno di “confronto” con i “neri” significa dichiarare la propria sconfitta prima politica e poi anche inevitabilmente “militare” dato che accettato lo scontro nessuno può a priori determinare quale sarà in futuro il suo livello

IL MERITO

Di fronte a fatti come quelli del 15 ottobre l’errore più grave sarebbe abbassare la richiesta di cambiamento al fine di rendere il movimento “più compatibile” e quindi accettato dentro il recinto politico-mediatico. Già la piattaforma della manifestazione era rimasta troppo nel vago per tenere assieme quelli che un tempo si sarebbero naturalmente definiti “riformisti” e “rivoluzionari”. Invece di scontrarsi, e magari dividersi sui contenuti, si è scelto di ripetere l’eterno dibattito tra chi sostiene che oggi sia necessario provare a cambiare “dall’interno” e quindi candidarsi al Governo e chi giudica questa una tragica illusione dato che per affrontare realmente la crisi servono riforme di struttura opposte a quelle contenute negli ordini della BCE. E’ stato proprio l’affermarsi di questo piano politicista del dibattito interno al movimento che ha consentito ai “neri” di entrare a gamba tesa in questa discussione, rompendo molti giochi, e spostando il piano di discussione ancora più lontano dal merito. Sui contenuti, sulla proposta, anche loro infatti sono deboli ed ambigui dato che, figli anch’essi del peggiore politicismo e populismo, considerano il merito solo uno strumento tattico per raccogliere consenso e giustificare di volta in volta il proprio posizionamento. IL PUNTO DEBOLE E’ qui quindi il vero punto debole su cui fare leva. Non servono repressione, criminalizzazione, militarizzazione o emarginazione e tutti gli altri alibi dietro a cui si nasconde una politica senza anima. Per affrontare il problema aperto nel movimento serve un conflitto politico duro e di merito. Solo tornando a concentrare l’attenzione sul merito della politica e, appunto, alzando decisamente l’ambizione del cambiamento si può riportare sul piano democratico e partecipativo quella reazione di massa alla crisi che rischia ora di implodere invece nella deriva estremista o nella rassegnazione. E’ quasi troppo facile ricordare che il movimento per l’acqua pubblica ha dimostrato che un contenuto radicale può raccogliere un consenso maggioritario. Seguiamo quella dura e faticosa strada ponendoci obiettivi ancora più vasti. La grande sfida del debito e della finanza, quella delle libertà compresa quella della rete, le scelte contro la guerra, i temi etici e civili, la necessità di una nuova idea di “benessere” e quindi la fuoriuscita dal consumismo compulsivo, la dignità e la funzione sociale del lavoro, solo per fare alcuni esempi, non possono vivere in lotte separate da addetti ai lavori ma devono costituire una piattaforma articolata attorno a cui ridefinire i contorni di una proposta di cambiamento dello stato di cose presenti. Serve il coraggio di portare la politica fuori dal circuito asfittico imposto dal bipolarismo (e gradito a gruppi dirigenti autoreferenziali) e gettarsi con umiltà, ma anche con fiducia, coraggio e determinazione nella battaglia del futuro. La generazione di Genova ha pensato che “un altro mondo è possibile”. Quella che è scesa in piazza a Roma, persa l’ingenuità, trovi la strada per realizzarlo e tutti gli incubi, anche i più “neri”, saranno solo un brutto ricordo.

*Direttore Libera.Tv

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