di Alfonso Gianni - Il Manifesto - 11.09.2019

Non si può certamente dire che la nuova Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen nasca all’insegna del cambiamento. Del resto le elezioni di maggio avevano confermato la tenuta dell’asse neo e ordoliberista - pur indebolito per le vicende interne delle sue principali colonne, Germania e Francia - e contenuto l’avanzata pur consistente del populismo di destra. Non c’è da stupirsi, quindi, se le roboanti dichiarazioni di luglio della Presidente sulla necessità di proporre nei primi 100 giorni del suo mandato un Green Deal europeo vengono oggi ridimensionate dal profilo politico delineato per la nuova Commissione e dalla scelta degli stessi commissari. Certamente la von der Leyen ha tenuto conto degli umori che nel mondo stanno cambiando sulle questioni climatiche; del fatto che l’equivalente della nostra Confindustria negli Usa afferma che le ragioni dell’impresa non stanno (solo) nei profitti ma nell’utilità sociale; come delle indicazioni che sono giunte da uno dei principali think tank del capitalismo a livello mondiale quale il Bruegel, che recentemente aveva individuato le tre principali sfide per la Ue: “definire il ruolo dell’Europa in un mondo sempre più bipolare tra Stati Uniti e Cina; contrastare il riscaldamento climatico; adottare una politica di bilancio pro- attiva che possa portare s una riforma del governo dell’economia nella zona euro”. Ma il tentativo della von der Leyen è quello di presidiare questi tre campi, di smorzare se non mettere a tacere il carattere trasformativo di queste tre sfide, di svuotarle di senso, di riportare il tutto in una rimodellata continuità, cercando di nascondere la crescente ed esplosiva crisi del progetto europeo. Il Green Deal non sparisce, ma l’enfasi delle dichiarazioni della von der Leyen è posto sugli investimenti nell’industria militare che porterebbero “molti benefici anche per l’industria privata” – citando ovviamente la nascita di Internet – ed affidando l’incarico alla francese Sylvie Goulard, rappresentante del paese più interventista e portatore del progetto di un vero esercito europeo. La vicepresidenza esecutiva con delega per l’economia viene affidata al lettone Valdis Dombrovskis, certamente non un new entry, distintosi ai tempi di Juncker per il suo rigorismo nella pratica dell’austerity. La sua posizione gerarchica e l’ampiezza delle sue deleghe lo pongono al di sopra di Paolo Gentiloni cui sono affidati gli Affari economici, ma con un portafoglio che appare semplificato non solo nel nome. E’ dubitabile che il nostro rappresentante possa svolgere le stesse funzioni di Moscovici per quanto riguarda le finanze pubbliche. Parrebbe più un Gentiloni embedded, tanto da gettare acqua sul fuoco degli entusiasmi patriottici. In ogni caso la von der Leyen ha tenuto a precisare, quasi rispondesse al messaggio di Mattarella al meeting di Cernobbio, che sul patto di stabilità vi è oggi un ampio consenso: “Le regole sono chiare”, ha detto, così come i limiti e la flessibilità. Ovvero non c’è nulla da riesaminare e tantomeno da cambiare. Ha ragione uno dei due capigruppo del Gue/Ngl, Martin Schirdewan, nell’osservare che si è pensato più alla relazione tra gli stati e la Ue che non a un vero progetto europeo. Infatti al budget ci va una figura di minore profilo come Johannes Hahn dei popolari austriaci. Mentre inquietante è la presenza di Laszlo Trocsanyi, commissario all’allargamento, ex ministro della giustizia ungherese considerato come un esecutore delle volontà di Orban, già entrato in conflitto con la stessa Ue per le misure introdotte nel suo paese che limitavano i poteri dei giudici, nonché campione nella lotta contro l’immigrazione e promotore della criminalizzazione delle Ong. D’altro canto anche la nomina del greco di Nuova Democrazia, la formazione di destra che ha vinto le recenti elezioni, Margaritis Schinas alla vicepresidenza alla sicurezza con delega all’immigrazione, raggela le speranze del popolo degli erranti per mare e per terra. Una novità comunque c’è e ne va dato atto: la quasi parità tra donne e uomini nella composizione della Commissione (14 uomini e 13 donne). Il Regno Unito infatti non ha designato alcun rappresentante e sulla Brexit la von der Leyen, che assumerà l’incarico il giorno dopo il fatidico 31 ottobre, se l’è cavata con toni elusivi e fatalistici: non la fine ma l’inizio di una nuova relazione, di cui si occuperà un commissario ad hoc qualora fosse chiesto un rinvio. Che dire infine della nomina ad Alto rappresentante per gli affari esteri del socialista spagnolo Josep Borrell? Visto il ribadimento della fedeltà alla Nato e del filoatlantismo, nonché l’assenza di una politica estera dell’Ue in quanto tale, non c’è che augurargli buona fortuna.

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