di Vincenzo Vita

 

«Mamma mia!», can­ta­vano gli Abba, tor­men­tone di suc­cesso dive­nuto musi­cal e film, inter­pre­tato quest’ultimo da Meryl Streep. E «mamma mia» diciamo noi, cul­tori della par con­di­cio e usi a cri­ti­care Ber­lu­sconi per l’uso spre­giu­di­cato del video: con­flitto di inte­ressi, soste­gno pri­vi­le­giato e quant’altro. Lo urliamo a mezza bocca, pian­gendo in silen­zio come Ama­lia di «Seni­lità», quando osser­viamo le pre­senze di Mat­teo Renzi in tele­vi­sione. Siamo a livelli inim­ma­gi­na­bili e qual­che volta per­sino inediti.

La rete d’assalto di Media­set — Rete­quat­tro — nel mese di set­tem­bre ha ospi­tato nei tele­gior­nali il Pre­si­dente del con­si­glio per il 38% del tempo. Un po’ meno Stu­dio Apeo (27%) e Canale 5 (24%): tabelle pub­bli­cate sul sito dell’Autorità per le garan­zie nelle comu­ni­ca­zioni. Insomma, Media­set ha inco­ro­nato Mat­teo Renzi, per­sino più della Rai ferma al 20%. Fino alla per­for­mance di dome­nica scorsa a «Dome­nica Live» di Bar­bara D’Urso, dove il pre­mier ha fatto da padrone di casa. Nello stesso giorno la gran­dis­sima mar­cia per la pace Perugia-Assisi veniva pra­ti­ca­mente snob­bata dai tg dell’azienda di Ber­lu­sconi, con l’eccezione di un pezzo sul sito di Tgcom24. Lasciamo stare gli even­tuali patti del Naza­reno. Tut­ta­via, lo sce­na­rio tele­vi­sivo è mutato pro­fon­da­mente e Renzi ha assunto un ruolo domi­nante, che va al di là dell’ovvio rico­no­sci­mento del lavoro del governo.

Insomma, ancora una volta il vec­chio equi­li­brio ex-duopolistico sem­bra resi­stere, a dispetto di un flo­ri­le­gio di con­ve­gni che invano evo­cano con­sul­ta­zioni di massa, inno­va­zioni, cambi di para­digma. Siamo fermi alla via cru­cis di vent’anni fa. Con la dif­fe­renza non banale che il lea­der del Pd vince a mani basse nella clas­si­fica delle appa­ri­zioni media­ti­che. E’ un caso di rivo­lu­zione pas­siva o è solo l’effetto della bra­vura comu­ni­ca­tiva (indub­bia) di Renzi?

In verità, la tele­vi­sione rimane un argo­mento tabù, stre­gato, irto di fili spi­nati. Non è imma­gi­na­bile alcuna riforma isti­tu­zio­nale senza varare una decente riforma del sistema infor­ma­tivo: tutto, non solo della com­po­nente pubblica.

Sarebbe biz­zarro se – di taglio in taglio– la Rai venisse smi­nuita senza alcuna stra­te­gia e Media­set tro­vasse un anco­rag­gio nel vasto porto di Tele­com. Del resto, il con­tratto di ser­vi­zio del ser­vi­zio pub­blico — come pre­co­niz­zato nella pun­tata di «Ri-mediamo» del 5 marzo scorso — rischia di coz­zare con il rin­novo della Con­ven­zione con lo Stato e di morire prima di nascere. E la com­pe­ti­zione sem­bra essersi ridotta ad una par­tita a due tra Sky e Media­set, La7 a parte.

Ecco per­ché è assai rischioso ciò che sta acca­dendo. Quando si inde­bo­li­scono regole e cri­teri si faci­lita la deca­denza del tes­suto demo­cra­tico. Guai a vol­tarsi dall’altra parte solo per­ché è calata l’invadenza del patron di Arcore. Meno Ber­lu­sconi, ma per­sino più berlusconismo.

Nel par­tito demo­cra­tico si è aperta la discus­sione sulla forma-partito, sul nesso tra iscritti ed elet­tori, strut­ture leg­gere o meno. Forse, sarebbe utile che si con­si­de­rasse già avve­nuta la tra­sfor­ma­zione della poli­tica, ormai appen­dice del circo media­tico. Para­dos­sal­mente, pro­prio coloro che hanno teo­riz­zato la fine dello schermo gene­ra­li­sta e la vit­to­ria della rete o dei social net­work sem­brano immersi nella cul­tura ana­lo­gica: quella della eterna tele­vi­sione pas­siva e indifferenziata.

Non sarà un caso se il testo arri­vato nell’aula della Camera dei depu­tati sul con­flitto di inte­ressi sia al di sotto di ogni sospetto. Che bel romanzo, «Il gat­to­pardo». Buon­giorno tristezza.

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