Se non si ragiona con lo spirito cui facevamo cenno ieri, se non ci si accorda sulla necessità di uno scatto enorme per far risalire la gracile economia dell'Umbria, si finisce per assolutizzare quegli aspetti modesti e parziali di una congiuntura positiva che, per le sue dimensioni, non autorizza scenari più ampi. Nel 2015 il Pil italiano si è assestato ad un +0,6%. Non ci sono ancora i dati regionali, ma quel rapporto tra passato e presente, per l'Umbria, è già molto indicativo. Faccio l'esempio dell'export. Dopo anni nei quali, nel corso della prima metà del 2000 l'export umbro era salito faticosamente all'l% del totale nazionale, ci sono stati poi anni duri che lo hanno riportato indietro allo 0,9%. Ricordo che nel 2014 l'export umbro, anche per il peso della siderurgia, è calato del 5,7% a fronte di una crescita nazionale del 2%. Nel corso del 2015 poi l'export umbro è tornato a salire più della media nazionale (6,4% contro il 3,8% dell'Italia), ma la percentuale umbra è sempre ferma allo 0,9% del totale nazionale, indice di quanto la questione della internazionalizzazione sia uno degli snodi cruciali e più difficili della realtà regionale, sia per il ruolo complessivo dei grandi gruppi multinazionali verso i quali si fatica ad impostare una politica organica mirante anche all’attrazione di impresa, sia per il resto del tessuto imprenditoriale regionale.

E allora. se la questione delle difficoltà della base produttiva è di così lunga durata, ne deriva con forza un'altra domanda: che cosa deve cambiare nelle strategie delle politiche pubbliche e insieme nelle scelte d'impresa per conquistare all'Umbria una qualità dello sviluppo più avanzato in grado di affrontare le sfide che vengono dalla globalizzazione? E' certo importante, ma non basta, sottolineare come occorra oggi selezionare molto di più che in passato, la finanza pubblica, in primo luogo quella di derivazione europea, per evitare che il flusso verso il sistema delle imprese serva, quando è “a pioggia”, nel breve periodo, solo a sistemare qualche margine di profitto. Ma solo una analisi severa, proposta in modo esplicito, può aiutare una scelta rigorosa di nuova allocazione delle risorse.

E questo vale anche per la cultura delle forze imprenditoriali, alle quali  occorre certo riconoscere l’impegno che c’è stato, in questi anni duri di crisi, a “fare impresa”. Ma anche qui le sfide sono enormi a cominciare da quelle relative alle frontiere dell’innovazione e della ricerca. Ancora un dato: nel 2013 gli investimenti delle imprese umbre sono stati (migliaia di euro) 50.642, pari allo 0,4 del totale nazionale, una cifra assolutamente sproporzionata anche alle piccole dimensioni dell’Umbria, un livello che peraltro da anni non si sposta positivamente in avanti, malgrado le incentivazioni regionali. Valga un confronto con il Pil regionale di questi investimenti privati: essi sono in Umbria lo 0,25%, in Abruzzo lo 0,38%, nelle Marche lo 0,36%, in Toscana lo 0,56%. Se poi si somma l’intervento dell’Università pari all’1,9% del totale nazionale, l’insieme degli investimenti in R&S dell’Umbria arrivano allo 0,9% del totale italiano: troppo poco. Mi chiedo: non c’è qui uno snodo che chiama in discussione scelte e percorsi della comunità scientifica regionale delle due università che hanno un ruolo essenziale nel fare avanzare nuovi driver di sviluppo nelle direzioni ambientali, della chimica verde, nella stessa metallurgia e in tutti i temi della sostenibilità urbana dello sviluppo.

Ecco. Sono tutti questi processi che ci danno i segni anche della nuova e forte divaricazione territoriale dell’Italia contemporanea, sulla quale hanno scritto molti economisti a cominciare da Aldo Bonomi. Sono dimensioni che bisogna leggere bene, con “spirito di verità”, per trovare scelte adeguate, anche nel dibattito istituzionale sulle macro-regioni che viene affrontato con non poca disinvoltura, fino a qualche bizzarria. Proviamo dunque a mettere insieme per questo i differenti dati reali delle economie territoriali alle quali prevalentemente ci si riferisce. Il Pil per abitante (migliaia di euro) è in Umbria (2014) 23,9 (Abruzzo 23,1, Marche 25,2, Italia 26,5, Toscana 28,9): l’Umbria è più vicina all’Abruzzo che alle Marche per non parlare dell’enorme distanza dalla Toscana. E nel Pil si esprime la quantità e la qualità della ricchezza prodotta da un territorio. La prima frontiera critica dell’Umbria sta proprio qui. Si guardi poi ai redditi da lavoro dipendente per occupato dipendente (in migliaia di euro). In Umbria sono 32,5 (Molise 32,4, Sicilia 32,0. Marche 33,8; Abruzzo 34,0, Toscana 34,5, Italia 35,6). Anche in questo caso si vedono le distanze critiche dell’Umbria e non già perché ci troviamo di fronte a contratti di lavoro differenti, quanto per una diversa collocazione del lavoro all’interno delle qualifiche che caratterizzano le diverse gerarchie e organizzazioni aziendali. Ed è questo un dato nel quale si esprimono tante cose che vanno dal riconoscimento del valore del lavoro nella produzione, alla ricchezza delle famiglie, ai consumi, alle dinamiche del mercato interno regionale.

Si pensi poi, in questo contesto, ad altre differenze, a cominciare dalla “questione industriale”, il cui Valore Aggiunto, nelle sue dimensioni allargate, pesa nelle Marche (2014) per il 24,3%; in Toscana per il 20,9%, in Umbria per il 19,0%.

Le conseguenze di questa geografia territoriale sono molte proprio in direzione del rapporto tra economia e politica, tra istituzioni e forze sociali. Sono per questo molto convinto che, dopo la lunga crisi, quando ancora molto incerti ne sono gli esiti, bisogna provare a riprogettare l’Umbria, ma proprio partendo dall’Umbria medesima, come insieme territoriale, fuori dai rischi di un risorgente municipalismo che esprime piuttosto le illusioni di consorterie locali volte, in una forma di neo-giolittismo, a contrattualizzare, zona per zona, i flussi di finanza pubblica.
Per pensare invece un’altra fase della propria storia l’Umbria non può privarsi di quella forza politica e progettuale che è radicata nella sua autonomia istituzionale, collocata nel cuore della sua Assemblea Legislativa, senza la quale finirebbe per collocarsi in modo subalterno, come area sottosviluppata, all’interno delle strategie di altre classi dirigenti, che hanno non pochi problemi all’interno dei propri territori, in una fase nella quale stiamo assistendo ad un gigantesco  “riaccentramento” delle politiche nazionali, che riaprono a loro volta, ovunque, i terreni del particolarismo. La scomparsa dell’Umbria, della sua autonomia istituzionale, proprio in quella direzione di una più forte qualificata produzione di ricchezza, non produrrebbe nulla di buono. Ed è qui che un “nuovo regionalismo” dovrebbe trovare il suo centro per strategie e strumenti: governare per fare nuovo sviluppo. E a questo fine servirebbe molto di più un confronto, un coordinamento effettivo di politiche e di scelte con le regioni vicine. Non ne vedo traccia concreta oltre il reiterarsi degli auspici.

Certo l’Umbria ha un tessuto economico molto articolato che chiede anche una forte articolazione progettuale, per la quale tuttavia sarebbe essenziale una scelta strategica molto spesso elusa: la verifica rigorosa, ex post dei risultati delle politiche, anche di quelle fatte “a Bando”. Per questo le classi dirigenti non dovrebbero aver timore della crudezza dei dati, delle asprezze della ricerca e del dibattito.

Se poi si risale dalle dinamiche produttive al complesso della qualità sociale della regione si vedono tanti altri processi che segnano i comportamenti e le scelte di donne e di uomini e che finiscono per pesare sulle culture, sulle visioni politiche, sulla democrazia e sulla vita quotidiana delle istituzioni. C’è ormai un’altra Umbria che, alla fine della crisi, fatica ad assestarsi, con nuovi processi di gerarchizzazione, con disuguaglianze molto più forti e diffuse del passato, con una espansione delle aree di sofferenza e di povertà (nel 2014 la povertà relativa è salita in Umbria all’8,0%, Marche 9,9%, Toscana 5,1%, Emilia Romagna 4,2%) con  nuove domande sociali radicate nella precarietà e nella incertezza diffusa. Non si legge l’Umbria di oggi senza questa nuova, dura, “questione sociale”. Ne sono investite tutte le dimensioni familiari, sociali e di gruppo, nelle cadenze della vita individuale di donne e di uomini, fino alle più delicate questioni della procreazione e della natalità. E dunque: non solo governare per fare sviluppo, ma per produrre qualità sociale, per fare comunità, per contrastare tutti quei processi che pesano sempre più sulle condizioni di vita di parti grandi della popolazione a cominciare dalle nuove generazioni.

E’ qui che la politica deve provare effettivamente a rinnovarsi in una dimensione di progetto, di costruzione di libertà e di comunità, anche nel  confronto aspro tra progetti differenti e trasparenti, contrastando con durezza un clima oggi prevalente nel quale i conflitti principali sembrano  essere quelli tra pezzi ed apparati di partiti-Stato, più o meno radicati nella storia politica della regione.

 
Anche per questo riportare al centro lo snodo “lavoro-sviluppo-qualità sociale” sul quale provare a riprogettare un’altra fase dell’identità dell’Umbria è essenziale: questo vorrei chiamare “nuovo regionalismo”, anche con radicali novità verso il passato, ma con l’orgoglio di una regione che attraverso una originale e forte progettualità politica e culturale ha saputo in passato, nel corso del novecento, costruire una personalità unitaria che non le rinveniva spontaneamente dalla sua storia più antica, segnata città per città, e ancor meno dalla gracilità della sua economia, ma che, proprio con questa forza soggettiva, è entrata con una identità unitaria, nella storia nazionale ed europea.

I rischi di un declino sono a ben vedere proprio qui: se quella soggettività culturale e civile venisse progressivamente meno, finirebbe per essere sostituita da localismi e trasformismi, con tutti i contorcimenti conseguenti della politica. E non sono pochi che premono in questa direzione, anche utilizzando il dibattito sulle macroregioni.

 

Claudio Carnieri

(2. fine)

 

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il Messaggero di domenica 27 marzo 2016.
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