Di Guido Viale

Il “contagio greco” non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. E’ l’intera costruzione dell’Unione Europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c’è l’euro. L’dea che si possa espellere dall’euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un’operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l’incalzare della speculazione. L’euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l’inflazione controllata (attraverso l’emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la BCE. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all’investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l’indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse - vedere per credere - ai cosiddetti “mercati”, a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata “prerogativa” dei paesi del cosiddetto “Terzo mondo”, strangolati dal Fondo Monetario Internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l’Unione Europea dovrebbe probabilmente assumere – e “sterilizzare” – buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie “forti” comprese.

Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i “mercati”? E che cosa sono mai questi “mercati”, ai quali è stata trasferita quella “sovranità”, cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e “delocalizzata” del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati – si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento – che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del PIL di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d’acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che “integrano” i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie. Ma i soggetti più forti dei cosiddetti “mercati” sono assicurazioni e fondi pensione – in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all’estero da tempo padroni di immense risorse – che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un’impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti “esuberi”. E’ il capitalismo diffuso - o “popolare” - bellezza!

Ma se l’euro - così come è stato fatto; perché l’idea non era male - sta travolgendo l’Unione Europea, a mettere alle corde l’intero pianeta, Europa compresa, è stata la diffusione pressoché universale del “pensiero unico”, cioè del liberismo: l’idea che il mercato, o i mercati, debbano governare il mondo e siano la soluzione migliore per rispondere alle esigenze di chiunque. Si tratta di una rappresentazione talmente lontana e diversa dalla realtà della vita quotidiana della gente da renderne impraticabili tanto la comprensione che il governo. Per tutti; anche per coloro – molti o pochi - che se ne avvantaggiano; o per coloro – pochi o molti – che sanno benissimo trattarsi di una favola per allocchi. Per queste sue caratteristiche il liberismo rappresenta oggi la forma più compiuta e diffusa di travisamento della realtà e la presa che da tempo esercita sul pensiero e gli orientamenti di governanti e governati di tutto il mondo è rappresentabile solo come una vera e propria “dittatura dell’ignoranza”. Da questo punto di vista il berlusconismo e le sue propaggini ormai estese a tutti gli anfratti del mondo politico e culturale italiano non sono che un caso particolare – più evidente e pronunciato in Italia - di un fenomeno che caratterizza a livello mondiale l’intera epoca in cui viviamo. Con effetti tragici e paradossali, ma proprio per questo rivelatori. Prendete per esempio il capofila di quel circo Barnum che sono i corsivisti del Corriere della Sera (Massimo Mucchetti escluso): dopo averci assicurato che il fallimento della banca Lehman Brothers era un evento salutare, e poi che la crisi mondiale era agli sgoccioli, o che la Gelmini aveva fatto una grande riforma, e infine che la manovra di Tremonti aveva messo al sicuro il bilancio dello Stato, ora – 2.07.2011 - Francesco Giavazzi affida all’”intuizione” del Berlusconi imprenditore (avete letto bene: “intuizione”: e dopo vent’anni di regime tutti sanno di che cosa si parla: truffe e panzane) il compito di risollevare le sorti del paese. Come approdo finale della dottrina economica liberista, di cui Giavazzi è un alfiere, non c’è male.

Il fatto è che, vista la situazione di impotenza in cui il pensiero unico e le “intuizioni” di Berlusconi ci hanno cacciato, le ricette per tirarsene fuori scarseggiano. Anzi, sono una sola, e si chiama “crescita”; che, scendendo alla sua declinazione pratica, vuol dire privatizzazioni (in barba ai risultati del referendum), liberalizzazioni (come se l’Italia non fosse il paese che offre – alle imprese – le maggiori libertà del mondo: vedi l’imprenditoria di mafia e camorra o, per scendere sul “legale”, i metodi di Sergio Marchionne), taglio della spesa pubblica (come se l’Italia non avesse le spese per scuola, ricerca, sanità, famiglia e disoccupazione più basse d’Europa); e poi, lavorare di più (copyright di Giuliano Amato: non lavorare tutti, ma fare lavorare di più chi già lavora); per finire con le Grandi opere (Tav, Ponte, autostrade, gassificatori ed expò: investimenti inutili, devastanti, costosi e senza prospettive di “rientro”). Così la nostalgia di una crescita che non c’è e non tornerà più si consuma nell’invidia per la Germania, come se i successi dell’economia tedesca non fossero indissolubilmente legati ai disastri dei paesi dell’Unione più deboli: quelli verso cui si dirige, senza reciprocità, metà delle sue esportazioni (l’altra metà va in USA e in Cina: due paesi che non godono più, ma che soprattutto non godranno più nei prossimi anni, dei successi che li hanno resi potenti e arroganti).

Purtroppo la dittatura dell’ignoranza e del pensiero unico - l’idea che a governare il mondo siano e debbano essere i “mercati” - non si arresta sulla soglia del Corriere né su quella dei partiti di maggioranza e di opposizione. Ha pervaso, e da tempo, tutta la società e, in qualche misura, ciascuno di noi. Persino per difendere una bella trasmissione come “Vieni via con me”, non ci si è appellati alla qualità intrinseca dei suoi contenuti, e nemmeno agli ascolti – che pure in qualche modo sono legati, e viziati, dal mezzo su cui transitano – ma alla pubblicità che il programma poteva raccogliere e far incassare alla RAI. Come dire: è il mercato – della pubblicità - che decide del valore di un’opera. Idi fatto la delega al mercato – l’idea che spetti ai mercati il governo del mondo e della nostra vita quotidiana – ci ha resi tutti in qualche misura impotenti e imbelli: incapaci, e a volte anche restii, ad autogovernarci e a rivendicare il potere e il diritto di farlo.

Una grande battaglia è stata vinta con i referendum, soprattutto se pensiamo alla scarsità – e all’oscuramento - delle forze che lo hanno promosso. Ma adesso, per raccoglierne i frutti, bisogna mettersi in grado di “governare dal basso”, con la forza dell’iniziativa, dei saperi diffusi e della solidarietà, i “beni comuni” che i Sì hanno sottratto all’obbligo della privatizzazione: non solo il servizio idrico integrato, ma tutti i servizi pubblici locali disciplinati dall’art. 23 bis ora abrogato: trasporto e mobilità urbana, gestione dei rifiuti, distribuzione e generazione di energia, mercato ortofrutticolo, mense e molte altre cose ancora. Per farlo bisogna attrezzarsi; e non è una cosa facile. Ma è solo in una crescita di una cittadinanza attiva impegnata nella costruzione di queste nuove forme di gestione, né privata né “pubblica” - nel senso di statale – che si possono formare e costituire un nuovo orientamento culturale, nuovi saperi tecnici e gestionali, e una nuova “classe dirigente” in grado di esautorare e sostituire quella inetta e corrotta – politica e imprenditoriale - da cui siamo governati. Gli embrioni di questo ricambio già ci sono, si tratta di riconoscerli, rafforzarli, farli crescere: domani potranno attrarre e inglobare anche le componenti meno compromesse di chi è oggi alle leve di comando.

Condividi