di Roberto Bertoni.

C'è poco da stare allegri, in quest'Europa esposta al vento gelido del sovranismo, travolta da quell'Internazionale bannoniana cui l'ex ispiratore e artefice del fenomeno Trump sta lavorando alacremente. Alcuni osservatori, evidentemente non paghi dei disastri degli anni passati, hanno pensato bene di minimizzare la portata dell'evento svedese, come se il fatto che in un Paese un tempo patria di Olof Palme, nonché culla del del welfare e della socialdemocrazia più avanzata al mondo, sia arrivato al 17 per cento un partito neonazista fosse una cosa normale. Rispondono i nostri eroi: non sono ancora al governo, dunque "zero tituli", come direbbe un noto allenatore che al momento non versa proprio in buone acque. Eh già, peccato che, almeno in Europa, per essere l'ago della bilancia non sia necessario avere il 17 per cento: basta il 2 con cui Mastella ha, di fatto, condizionato e fatto cadere il governo Prodi, basta il poco con cui Rifondazione ha fatto altrettanto nel biennio '96-'98, basta il 4 con cui Bossi ha spadroneggiato insieme a Berlusconi nel quinquennio 2001-2006, bastano percentuali minime insomma per essere protagonisti assoluti della scena politica. Quando si ha il 17, come nel caso di Salvini, si può puntare a costruire una sorta di egemonia culturale, ed è questo l'intento dei vari Orbán, Le Pen, Farage, Akesson e compagnia sovranista. Non capire ciò, non rendersi conto della gravità di quanto sta accadendo e continuare a crogiolarsi nel mito di un maggioritario ormai esanime e fallimentare pressoché ovunque significa non aver compreso il passaggio d'epoca che stiamo vivendo e non essere attrezzati a fronteggiarlo.
Ora, può anche darsi che gli svedesi, alla fine, per merito della loro antica tradizione democratica e della solidità delle istituzioni che li caratterizza, riescano in qualche modo a dar vita ad un esecutivo che tenga fuori il pericolo costituito da Sverigedemokraterna, ma quanto può durare? E chi invoca grandi coalizioni e simili si rende conto che è stata proprio questa formula, portata per anni ad esempio di buon governo e sanità del sistema, ad agevolare l'ascesa dei nazionalisti e dei trumpisti di tutto il Vecchio Continente? Possibile che non si riesca mai ad imparare dagli errori pregressi, che non ci si accorga di quale deriva abbiamo imboccato, che la storia, per dirla con il genio di Gramsci, insegni ma non trovi mai scolari disposti ad ascoltarla e a comportarsi di conseguenza? Ma davvero Cacciari si illude che possa apparire nuovo un parecchio che, secondo lui, dovrebbe mettere insieme un PD liquefatto e, nelle sue intenzioni, dissolto, i liberisti spagnoli di Ciudadanos, un Macron ridotto ai minimi termini e tutti coloro che in comune hanno solo il fatto di non riconoscersi nell'anti-europeismo fascistoide di coloro che vorrebbero distruggere sette decenni di conquiste democratiche e civili? Possibile che in Italia non ci siano bastati venticinque anni di anti-berlusconismo per capire che i fronti Anti non portano da nessuna parte? Possibile che la miopia degli intellettuali, nel complesso, sia tale da non indurli mai ad un minimo di autocritica?
L'impressione amara è che ormai politica e giornalismo siano come due pugili che si abbracciano sul ring, esanimi, senza più colpi da scagliare, senza più nulla da dire, senza più la forza di rialzarsi, di reagire, di dar vita ad un duello degno di questo nome. L'afasia del nostro asfittico panorama intellettuale riflette in pieno il vuoto spinto del nostro panorama politico, con una destra cui non resta che scagliarsi contro il caffè americano di Starbucks e una sinistra che scimmiotta il sovranismo d'accatto delle ex camicie verdi risciacquate nel Po nella speranza, ovviamente vana, di rosicchiare qualche voto che, naturalmente, andrà all'originale o, nel migliore dei casi, alla copia meglio riuscita incarnata dal M5S.
La sinistra perde perché non ha pensiero, perde perché ha fallito, perché è diventata antipatica, a tratti quasi odiosa, perde perché su ogni argomento appare o velleitaria e inconcludente o più a destra della peggior destra, perde perché non offre protezione agli ultimi, anzi ne ridicolizza le istanze, perde perché continua a immaginare orizzonti di gloria che non sono mai esistiti, perde perche è rimasta prigioniera dell'abbaglio post-'89, dei propri cedimenti, dei propri tradimenti, delle proprie idee sbagliate e semplicistiche, perde perché si è illusa che bastasse una riforma dell'architettura elettorale e istituzionale per entrare in una nuova stagione di successi, perde perché sono quasi trent'anni che è subalterna al thatcherismo, perde, insomma, perché non ha più nulla da dire e da dare, troppi capelli bianchi, troppo poco rispetto per i pochi grandi vecchi rimasti e il disprezzo di milioni di giovani che la considerano, non a torto, una delle cause principali della propria impossibilità di trovare un'occupazione dignitosa che consenta loro di costruirsi un futuro e una famiglia.
Piaccia o meno questa disamina, è con essa che dovrà confrontarsi chiunque voglia rimettere in piedi qualcosa che abbia a che fare con un progetto progressista, altrimenti non rimarrà altro che la propaganda spicciola del senatore di Scandicci, buona per qualche show sul palco della festa dell'Unità, peraltro senza che l'Unità esista più, ma non certo per ricostruire una visione politica e una forza elettorale in grado di sfidare il baratro cui vorrebbero condannarci i seguaci di Bannon.
La Svezia ci dice chiaramente che è saltato il sistema, che sono finite per sempre le antiche certezze e che potremmo, a breve, giocarci l'Europa e l'euro o, quanto meno, l'Europa e l'euro come li abbiamo conosciuti finora, trasformandoci in tante piccole patrie inconsistenti ed inutili che verranno semplicemente disintegrare dai colossi che ci hanno lanciato il guanto di sfida da diversi anni. Cina, Russia, India, Stati Uniti e anche alcuni paesi africani non aspettano altro, con buona pace della nostra cultura, delle nostre radici e della nostra tradizione illuminista. Dell'Europa, dalla prossima primavera, potrebbe rimanere solamente un glorioso passato e qualche non luogo situato nel suo cuore e chiamato per convenzione Parlamento o Commissione europea. Per il resto, un'avanzata poderosa del Gruppo di Visegrád equivarrebbe alla sua dissoluzione, checché ne pensino, ne dicano e né scrivano coloro che non hanno ancora capito che la politica e le elezioni non sono come la classifica del campionato dove il terzo è terzo e lì rimane. In italia, tanto per citare un paese a caso, un partito che lo scorso 4 marzo non è andato oltre il terzo posto, con 17 per cento dei consensi, oggi è al governo, detta legge all'alleato che ha conseguito il doppio dei voti ed è il protagonista assoluto e indisturbato di molte cronache politiche. In Svezia, forse, le cose andranno diversamente, magari nascerà un esecutivo di minoranza e l'appuntamento con il potere per Sverigedemokraterna sarà rimandato, ma non c'è dubbio che Akesson è i suoi abbiano aperto una breccia, conducendo ad un risultato un tempo impensabile una forza politica i cui capisaldi sono l'uscita dell'euro e l'opposizione totale all'accoglienza dei migranti. Se pensiamo che lo stesso sta avvenendo in Francia e in Germania, dove le leadership di Macron e della Merkel sono sempre più in bilico, capiamo che l'esile filo che ancora ci lega alla civiltà rischia di spezzarsi.
Diciamo che per invertire la rotta ci vorrebbe un radicale cambio di paradigma, che investisse le idee e le proposte assai prima delle persone, un soggetto politico che non ci facesse sentire all'opposizione tanto del governo quanto della sua sedicente opposizione, e talvolta più di quest'ultima che del primo, e una visione globale dei problemi oggi del tutto assente o quasi. Con meno di questo, duole dirlo, ma la Lega delle Leghe ipotizzata da Salvini a Milano, con accanto il suo amico Orbán, ha già vinto, al netto dei risultati elettorali. Il resto è pura sofferenza, testimonianza o, se volete, in sintesi, un doloroso addio.

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