Torna l’idea di pro­muo­vere la cre­scita tagliando i salari e le pen­sioni “d’oro”. Tagliando i salari e libe­ra­liz­zando il mer­cato del lavoro – si dice – aumen­te­rebbe la domanda di lavoro, dun­que l’occupazione, dunque il pro­dotto. È ancora la ricetta della Trea­sury View del ’29, che viene argo­men­tata nel modo seguente.

Le imprese assu­me­ranno nuovi lavo­ra­tori se e sol­tanto se il sala­rio non è mag­giore della pro­dut­ti­vità del lavoro. Dal punto di vista della sin­gola impresa ciò è ragio­ne­vole: la sin­gola impresa con­ta­bi­lizza il sala­rio sol­tanto come un costo, e se c’è disoc­cu­pa­zione, è per­ché il sala­rio è troppo alto rispetto alla pro­dut­ti­vità del lavoro. Segue: se non ci fos­sero impe­di­menti giu­ri­dici o sin­da­cali, cioè se il mer­cato del lavoro fosse fles­si­bile come il mer­cato del pesce, sul mer­cato del lavoro si sta­bi­li­rebbe un livello di equi­li­brio del sala­rio, tale che non ci sarebbe disoc­cu­pa­zione invo­lon­ta­ria. Risul­te­reb­bero non occu­pati sol­tanto quei lavo­ra­tori che pre­ten­dono un sala­rio più alto della loro pro­dut­ti­vità, le imprese pro­dur­reb­bero tutto quanto sono in grado di pro­durre, e tutto quanto ven­de­reb­bero, poi­ché tutta la moneta dispo­ni­bile ver­rebbe impie­gata per com­pe­rare merci e giam­mai trat­te­nuta in forma liquida o a fini spe­cu­la­tivi. L’argomentazione sem­bra con­vin­cente, e lo è tanto che ha ispi­rato e ispira tutte le cosid­dette riforme “strut­tu­rali” del mer­cato del lavoro. Però è una tesi che non regge, a meno che non si dia per scon­tato che tutte le merci pro­dotte pos­sano essere ven­dute, che conti sol­tanto l’offerta e non anche la domanda.
La domanda aggre­gata di merci è costi­tuita dalla domanda per con­sumi, dalla domanda per inve­sti­menti, e dalla domanda estera.

La domanda per con­sumi, a sua volta, è costi­tuita dalla domanda di quanti hanno un red­dito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di ren­dita o di pro­fitti. In una situa­zione di disoc­cu­pa­zione e di bassi salari, aumenta la quota — sul pro­dotto sociale — delle ren­dite e dei pro­fitti. Si può pen­sare che i mag­giori con­sumi di lusso bastino a com­pen­sare i minori con­sumi dei lavo­ra­tori? Ovvia­mente no.

Si può tut­ta­via pen­sare che gli alti pro­fitti indur­ranno le imprese a aumen­tare la pro­du­zione di beni di con­sumo, dun­que l’offerta, dun­que l’occupazione? No, per­ché le loro aspet­ta­tive di ven­dita di beni di con­sumo saranno pes­si­mi­sti­che e liqui­de­ranno le scorte. Com­pen­se­ranno forse la minor domanda per con­sumi con loro nuovi inve­sti­menti? No: per­ché mai aumen­tare la capa­cità pro­dut­tiva, se le pro­spet­tive di ven­dita sono pes­si­mi­sti­che? Dun­que l’unico effetto di bassi salari saranno alte ren­dite e alti pro­fitti, e l’impiego di que­sti e di quelle nella spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Spe­cu­la­zione finan­zia­ria che nel migliore dei casi è un gioco a somma zero, in cui Tizio gua­da­gna e Caio perde – ma tal­volta, come oggi, un gioco in cui perde anche Sem­pro­nio.

Resta la terza com­po­nente della domanda aggre­gata, le espor­ta­zioni. La capa­cità di espor­tare dipende forse da un basso prezzo delle merci offerte sul mer­cato inter­na­zio­nale? Per un lungo periodo così è stato, per le imprese ita­liane: fino a quando hanno potuto godere di sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive; ma su cui non potranno più con­tare, nem­meno se l’Unione euro­pea e dun­que l’euro si sgre­to­las­sero. La capa­cità di espor­tare dipende anche dal costo del lavoro, ma sopra­tutto dal con­te­nuto tec­no­lo­gico delle merci pro­dotte. Quanti pro­dotti a alto con­te­nuto tec­no­lo­gico abbiamo in casa, di pro­du­zione nazio­nale delle imprese nazio­nali?

Circa il taglio delle pen­sioni “d’oro”, giu­sti­fi­cato sol­tanto con una lamen­tosa mozione degli affetti, con l’invocazione alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, va detto che esso ha la natura di una impo­sta di scopo e che dun­que nel nostro ordi­na­mento è inam­mis­si­bile; e va ricor­dato che la Corte costi­tu­zio­nale si è già pro­nun­ciata, giu­di­cando tale pre­lievo in con­tra­sto con gli arti­coli 3 e 53 della Costi­tu­zione, rispet­ti­va­mente sul prin­ci­pio di ugua­glianza e sul sistema tri­bu­ta­rio: «L’intervento riguarda, infatti, i soli pen­sio­nati, senza garan­tire il rispetto dei prin­cipi fon­da­men­tali di ugua­glianza a parità di red­dito, attra­verso una irra­gio­ne­vole limi­ta­zione della pla­tea dei sog­getti pas­sivi».
Quanto alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, come ave­vano spie­gato Key­nes e Solow (che non sono i Gufi di Mat­teo Renzi e di Giu­seppe Giu­sti: «Gufi dot­tis­simi che pre­di­cate e al vostro simile nulla inse­gnate», ma due grandi eco­no­mi­sti) è molto dif­fi­cile deci­dere se sia cor­retto e ragio­ne­vole chia­mare la gene­ra­zione vivente a restrin­gere il suo con­sumo in modo da sta­bi­lire, nel corso del tempo, uno stato di benes­sere per le gene­ra­zioni future, e d’altra parte coloro che riten­gono prio­ri­ta­rio non inflig­gere povertà al futuro dovreb­bero spie­gare per­ché non attri­bui­scono ana­loga prio­rità alla ridu­zione della povertà oggi.

Resta, natu­ral­mente, la grave que­stione del bilan­cio pub­blico. Sotto i vin­coli oggi impo­sti dall’Unione Euro­pea, diventa cru­ciale la revi­sione della spesa – sopra­tutto della com­po­si­zione della spesa: non va ridi­men­sio­nato — come sinora si è fatto — ma va accre­sciuto il peso delle voci di spesa più ido­nee a ali­men­tare la domanda, e vanno sal­va­guar­date sanità, istru­zione e pen­sioni. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influen­zano la domanda a doversi ridurre, nella misura neces­sa­ria a rag­giun­gere il pareg­gio e a fare spa­zio nel bilan­cio alle spese da espan­dere e alla pres­sione tri­bu­ta­ria da limare. Con una simile, arti­co­lata mano­vra di finanza pub­blica, la domanda glo­bale, anzi­ché con­trarsi, rice­ve­rebbe soste­gno. Della revi­sione della spesa, tut­ta­via, molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male.
Oltre alla revi­sione della spesa, si deve pen­sare a una revi­sione delle entrate: in primo luogo al con­tra­sto all’evasione, e anche qui molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male. E si deve pen­sare a una revi­sione delle ali­quote dell’Irpef, secondo il det­tato della Costi­tu­zione al già citato arti­colo 53: «Tutti sono tenuti a con­cor­rere alle spese pub­bli­che in ragione della loro capa­cità con­tri­bu­tiva. Il sistema tri­bu­ta­rio è infor­mato a cri­teri di pro­gres­si­vità». Tut­ta­via l’aliquota mar­gi­nale mas­sima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i red­diti oltre i 75.000 euro, men­tre è noto a tutti che molti e di molto sono i red­diti più ele­vati: il 5% dei con­tri­buenti più ric­chi con­cen­tra il 22,7% del red­dito com­ples­sivo. Si potreb­bero dun­que ridurre le ali­quote per i red­diti più bassi e aumen­tarle per i red­diti più ele­vati, per ovvie ragioni di giu­sti­zia sociale e per­ché così aumen­te­rebbe la spesa per con­sumi, e molto di più di quanto non siano aumen­tati con la bene­fi­cenza degli 80 euro. Di ciò, tut­ta­via, non si parla affatto.

Per­ché di tutto ciò non si parla e sem­mai si fa poco e male? L’unica rispo­sta plau­si­bile è che a ciò si oppon­gono inte­ressi costi­tuiti che non si vogliono o non si sanno con­tra­stare. Scri­veva Key­nes, nel 1936: «Il potere degli inte­ressi costi­tuiti è assai esa­ge­rato in con­fronto con la pro­gres­siva esten­sione delle idee», qui però si sbagliava.

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