Come è noto FAQ è un acronimo inglese (Frequently Asked Questions) che indica l’esistenza di domande frequenti che vengono poste attorno a una determinata questione. Qui ci riferiamo agli interrogativi che possono sorgere in una cittadina o in un cittadino che deve decidere come votare nel referendum che gli pone la secca domanda: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana - Serie generale - n.240 del 12 ottobre 2019?» Per tale referendum le operazioni di voto si svolgeranno domenica 29 marzo 2020, dalle ore 07:00 alle ore 23:00. Al quesito noi risponderemo No sulla base di molteplici motivazioni e argomentazioni che qui cerchiamo di riassumere per linee essenziali (B) immaginando di controbattere alle affermazioni (A) di coloro che sono favorevoli alla promulgazione della legge.

A: E’ perfettamente inutile andare a votare, tanto il quorum non verrà raggiunto e quindi la legge entrerà in vigore.

B: E’ falso perché nei referendum su modifiche della costituzione non è previsto alcun quorum, a differenza che nei referendum abrogativi di leggi ordinarie. Pertanto qualunque sia il numero dei votanti ciò che conta sarà il confronto tra il numero dei No e quello dei Sì. Se i No saranno in numero maggiore la legge non verrà promulgata quindi non entrerà in vigore.

A: La vittoria del Sì è sicura perché l’orientamento prevalente è ostile ai parlamentari e così ci dicono i sondaggi

B: Nessuno può predire con sicurezza chi vincerà. Se bastassero i sondaggi (fatti da chi? Come? Con quali metodi? Con quanti intervistati?) allora sarebbe persino inutile fare le elezioni politiche, perché il risultato si saprebbe già prima. Ma soprattutto, per quanto potente sia stata la propaganda qualunquista e populista gestita dalle forze dominanti, il corpo elettorale italiano si è già espresso in due occasioni contro proposte di revisione costituzionale che prevedevano tra le altre cose la riduzione del numero dei parlamentari. E le ha bocciate entrambe con una partecipazione al voto superiore alla metà degli aventi diritto, cioè il quorum, per quanto questo non fosse necessario in quelle consultazioni, dimostrando così una convinta volontà di difendere il testo costituzionale. Ci riferiamo al referendum che si svolse il 25 e 26 giugno 2006 in merito ad una proposta di legge avanzata dal centro-destra in cui era prevista una Camera composta da 518 deputati (in luogo dei 630 attuali) e un Senato di 252 senatori (in luogo degli attuali 315, considerando solo quelli elettivi, cioè al netto dei senatori a vita che sono cinque, cui va aggiunto il/i senatore/i di diritto e a vita ex Presidente/i della Repubblica). Il secondo caso è costituito dal referendum sulla proposta di legge Renzi-Boschi tenutosi il 4 dicembre del 2016. Anche in questa occasione si recò alle urne la maggioranza degli aventi diritto e la proposta venne bocciata. Questa, tra le altre cose, prevedeva di lasciare la Camera inalterata ma di modificare profondamente la composizione e il ruolo del Senato, prevedendo un organo composto da 95 membri elettivi di secondo grado, cioè eletti dai Consigli regionali o provinciali autonomi, tra i consiglieri regionali e i sindaci del territorio.

A: Sì ma questa volta non sono state neppure raccolte le firme per fare indire il referendum

B: Non c’è nulla di strano. Anche per il referendum del 2016 fu così. L’articolo 138 della Costituzione prevede tre possibilità per promuovere il referendum: un quinto dei membri di una Camera (in questo caso la richiesta è stata fatta da 71 senatori) o cinque Consigli regionali o cinquecentomila elettori. Ognuno dei tre è sufficiente e valido per indire il referendum costituzionale.

A: Bisogna votare sì perché i parlamentari in Italia sono troppi.

B: E’ falso. L’unico serio criterio per giudicare sul numero dei parlamentari è guardare al rapporto fra membri del parlamento e abitanti. Se facciamo un raffronto fra i paesi dell’Unione europea, considerando i componenti della Camera cosiddetta bassa - non potendo confrontare i dati del Senato perché troppo differenti da paese a paese sono le regole per la formazione e funzionamento della camera cosiddetta alta, laddove esiste - constatiamo che attualmente quel rapporto in Italia è pari a 1,0. Un valore che ci colloca a fianco dei paesi maggiori, ma sotto la maggioranza degli Stati membri della Ue che hanno un numero di parlamentari nettamente superiore. Se andasse in vigore la legge su cui verte il referendum tale rapporto scenderebbe allo 0,7% e collocherebbe l’Italia all’ultimo posto dei paesi della Ue. Espresso in numeri tale rapporto scenderebbe da un deputato ogni 96.006 abitanti a un deputato per 151.210 abitanti.

A: La riduzione del numero dei parlamentari non incide sulla rappresentanza, anzi la rende più autorevole.

B: Completamente falso. Se si riduce il rapporto fra cittadini e parlamentari si incide profondamente sulla rappresentanza politica, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Perché si realizzi una vera rappresentanza politica, bisogna che i singoli parlamentari abbiano una relazione reale e continua con i problemi del territorio in cui è avvenuta la loro elezione e dei cittadini che ci vivono, nonché un rapporto costante, non limitato al momento del voto, con i propri elettori. Meno sono gli eletti e più difficile è realizzare quel rapporto. Questo inevitabilmente nuoce all’azione dei parlamentari sul piano qualitativo perché riduce la possibilità di una conoscenza dei problemi concreti. Quindi la rappresentanza politica ne risulta peggiorata.

A: La qualità del lavoro parlamentare non dipende dal numero di chi lo svolge ma dalle capacità dei parlamentari

B: Se si riducono del 37% il numero dei parlamentari la situazione si aggrava anziché risolversi. La scarsa qualità politica dei membri di un parlamento deriva dalle modalità della loro selezione. Se si svuotano di funzione i partiti, se si smantellano i luoghi di iniziativa sociale nel paese, cioè se si abbattono i corpi intermedi tra i cittadini e le istituzioni, come si è fatto in questi anni in Italia, vengono meno le possibilità di una vera selezione, maturata sul territorio, nelle lotte sociali, nel dibattito politico. Se i candidati vengono scelti con un “mi piace” cliccando un tasto del computer è ovvio che si ottiene un insieme di eletti di scarsa qualità. A questo vanno aggiunte le pessime leggi elettorali, tutte viziate da incostituzionalità che si sono succedute nel nostro paese. Infatti i cittadini non hanno avuto voce in capitolo né nella composizione delle liste, né nella scelta dei candidati. Le liste sono fatte dalle segreterie dei partiti, ridotti a un guscio vuoto, e i cittadini non possono esprimere preferenze. Così abbiamo un parlamento di nominati, non di eletti. La nuova proposta di legge elettorale che è stata recentemente presentata alla Camera non modifica queste condizioni. Anzi le peggiora, alzando persino la soglia di sbarramento al di sotto della quale non si può accedere alle camere, il famoso quorum (per la Camera si passerebbe dal 3% al 5%, per il Senato vi sarebbe un’ulteriore possibilità di accedervi, se si ottiene il 15% in almeno una regione). In questo modo si impedirebbe l’ingresso in Parlamento a intere forze politiche che esistono nella società, tagliando drasticamente la rappresentanza politica e la vita democratica del paese. Oltre a questo ogni parlamentare per risultare eletto, a causa della diminuzione complessiva dei membri del Parlamento, dovrebbe ricevere ben più voti che nella situazione attuale. Noi invece siamo per una legge elettorale proporzionale pura, cioè senza distorsioni maggioritarie.

A: Ma con una legge proporzionale i cittadini non saprebbero il giorno dopo le elezioni chi governa il paese e non lo potrebbero determinare

B: Questa logica è già stata respinta nei due referendum di cui abbiamo già parlato, del 2006 e del 2016. E’ la logica dei sistemi elettorali maggioritari o di quelli misti con forti distorsioni maggioritarie. Si vorrebbe fare prevalere il principio della governabilità su quello della rappresentanza. E’ una logica pericolosa, che porta inevitabilmente a concentrare il potere in poche mani, a sistemi oligarchici, a democrature, come si suole dire nel linguaggio degli studiosi delle istituzioni, a soluzioni post e anti-democratiche. Ed è una soluzione fallimentare, come dimostrano le vicende dei governi italiani e di altri paesi negli ultimi anni, nonché la “transumanza” di eletti da un gruppo all’altro e la creazione di nuovi gruppi politici e parlamentari senza passare dal vaglio elettorale. Infatti un governo solido può nascere solo se la rappresentanza politica, ovvero l’insieme del Parlamento, è composta in modo corretto ed è espressione non fittizia (come avvenuto con le ultime leggi elettorali) della volontà popolare. Solo se la divisione dei poteri è ben chiara, quello legislativo del Parlamento, quello giudiziario della Magistratura, quello esecutivo del Governo. Già ora quest’ultimo prevarica gli altri, in particolare il Parlamento con la pratica costante dei decreti legge. Nello stesso tempo, proprio perché il nostro paese fa parte dell’Unione europea - nella quale il ruolo del Parlamento europeo, che viene eletto su base proporzionale, viene poi ridimensionato dallo strapotere delle istituzioni non elettive - bisogna difendere la centralità del Parlamento nel nostro modello democratico perché possa anche essere di riferimento ad una democratizzazione delle istituzioni europee.

A: In ogni caso bisogna che il Parlamento operi in modo efficiente e produttivo e tutti sanno che in meno si lavora meglio.

B: Del tutto falso. Non solo perché un parlamento che non rispecchi la corretta rappresentanza politica dei cittadini, farebbe solo gli interessi di quelle forze politiche che sono riuscite a entrarci. Ma anche perché il nostro Parlamento lavora molto attraverso le Commissioni permanenti, che alla Camera sono 14, al Senato 12, cui vanno sommate le importantissime Giunte, le Commissioni speciali, quelle bicamerali. Ogni parlamentare deve partecipare a una delle commissioni permanenti, le quali possono lavorare in tre modi: in sede referente, votando emendamenti e testi e portando il testo finale alla discussione dell’Aula; in sede redigente, votando gli emendamenti e lasciando all’Aula solo il voto dei singoli articoli e quello finale; in sede legislativa, potendo licenziare la legge senza passare dall’Aula. Se si riducono i parlamentari è evidente che si consegna nelle mani di pochi, prevalentemente dei maggiori partiti, poteri enormi, compreso quello della legiferazione diretta. Qualcuno dice: diminuiremo il numero delle commissioni. Ma in questo modo viene meno il principio della competenza nella materia delle singole commissioni. Quindi si peggiora la qualità e gli esiti del lavoro parlamentare.

A: Poche chiacchiere, riducendo il numero dei parlamentari si risparmia soldi pubblici

B: Ridicolo. Secondo calcoli di organismi qualificati la riduzione dei parlamentari porterebbe a un risparmio di appena lo 0,007 del bilancio dello stato. Non sono diversi i calcoli degli stessi uffici studi del Parlamento. Il che si tradurrebbe in un risparmio annuo per famiglia pari a 3,12 euro annui, ossia 1,35 euro a cittadino. Qualche centesimo in più di un buon caffè bevuto in piedi al banco. La democrazia ha i suoi costi e quando funziona sono sacrosanti. Vale ben di più di un caffè una volta all’anno. Se si vogliono ottenere risparmi di spesa veramente consistenti basterebbe, per esempio, abolire gli acquisti degli aerei di guerra F35, il che favorirebbe la causa della pace. Del resto non può funzionare se le si tolgono le risorse anche economiche necessarie. Il nostro compito non è restringerla ma ampliarla, rendendo più viva e attiva la partecipazione dei cittadini, difendendo, rendendo più trasparenti e accoglienti quei corpi intermedi, cioè le varie forme di associazione politica, sindacale, culturale con cui intrecciare democrazia diretta e delegata. Come si vede il nostro No è carico di significati che vanno nel senso della difesa e dell’estensione della democrazia, unendosi anche al No al progetto di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord che minerebbe l’unità del paese e produrrebbe quella che è stata giustamente chiamata “la secessione dei ricchi”.

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