"La Perugina è in crisi, ma la città sembra non accorgersene". Così abbiamo scritto, ieri su queste colonne, nel corsivo di commento all’articolo “Perugina, trecento posti a rischio. Ora è agitazione”. Una constatazione che è sotto gli occhi di tutti.

Ma la perdita di peso della Perugina, nell’immaginario e nell’economia di Perugia, non è questione di oggi, ma dura da anni. Come da anni la Perugina ha perso la funzione di fornitrice di ceto dirigente alla sinistra umbra. È lì, infatti, che nel passato si sono formati numerosi personaggi che hanno poi avuto ruoli di primo piano nei partiti della sinistra perugina e umbra e nelle istituzioni. La centralità nella vita economica della città della fabbrica era anche centralità di formazione sociale e culturale, di elevazione sociale, di identità, di partecipazione alla vita politica. Il lavoro, per dirla con il vecchio Marx, come presa di coscienza di sé, della propria condizione all’interno della società, di appartenenza a una classe che poteva, e doveva, avere un ruolo nella trasformazione sociale. Non si può dire per la Perugina quello che la General Motors propagandava negli Stati Uniti, ossia che «ciò che va bene alla General Motors, va bene all’America» (motto diventato nel Belpaese «ciò che va bene alla Fiat, va bene all’Italia»), ma certo questa fabbrica ha avuto una sua centralità nel tessuto economico e sociale perugino a tutto tondo, esercitando quell’egemonia culturale su cui Gramsci ha scritto pagine molto belle dal punto di vista storico-filosofico-economico-culturale e di concreta prassi politica.

Da qui lo spaesamento di oggi dei sindacati quando c’è una vertenza alla Perugina, la loro fatica a promuovere una mobilitazione cittadina. Cosa che in verità non riesce da tempo, perché è impossibile far tornare il passato quando le condizioni sono radicalmente cambiate. A ogni vertenza, a fiancheggiare lavoratori e sindacati sono i partiti del centrosinistra e le istituzioni, quando sono rette da questi partiti. Ma la città resta sostanzialmente estranea. Per la maggioranza dei perugini, adesso come negli ultimi anni, quella dello stabilimento di San Sisto non è, come una volta, “la vertenza”, ma “una vertenza”, benché comunque più importante di altre, perché questo marchio è impresso nella storia di Perugia dell’ultimo secolo e perché i lavoratori della fabbrica (800 fissi + 300 stagionali) sono numerosi. Insomma, la Perugina ha perso la sua forza propulsiva a livello sociale e da lì ormai da anni non viene più fuori ceto dirigente della città e della regione.

Cosa è accaduto? Lasciando perdere il discorso, vero ma tanto pronunciato che si può ormai dare per scontato, sui cambiamenti economici e sociali, che con la nuova fase della globalizzazione (perché la globalizzazione va avanti almeno della metà del Settecento) hanno messo il turbo, c’è un punto a mio parere chiave e che riguarda specificatamente Perugina come altre aziende umbre e, più in generale, il complesso dell’economia regionale.

Per parlare in termini calcistici, è che la città, come pure la regione, sono passate, via via negli ultimi 30 anni, dal giocare dalla serie A alla serie B. Prima c’erano dei campioni autoctoni (Perugina, ma anche Ellesse, ma anche Ginocchietti e così via) che erano protagonisti sui mercati italiani, europei e mondiali. Con tutto quel che ne consegue, ossia il fatto che la polpa a maggiore valore aggiunto del processo industriale (la ricerca, il marketing, l’ingegneria finanziaria e così via) si irraggiava maggiormente nel territorio. Il valore aggiunto (economico, ma anche sociale e culturale) veniva in misura molto maggiore “catturato” dal territorio. Da qui la centralità, come detto economica ma non solo, della Perugina.

Con la vendita a realtà esterne siamo andati a giocare in serie B. Queste funzioni ad alto valore aggiunto e a forte impatto di crescita sociale e culturale Nestlé le svolge in Svizzera, o in altri Paesi. A noi è richiesto di essere bravi operai (e lo siamo) e impiegati di terzo o quarto livello (e siamo bravi anche in questo). È come se la distribuzione del lavoro ci abbia detto: voi fate i bravi operai, a fare gli ingegneri, l’ingegneria finanziaria, il marketing ci pensiamo noi. Dalla testa siamo passati ad essere il cuore. Organo vitale, ma un cuore nobile fa e va dove decide la testa, non viceversa. Non è un caso che le Marche, che hanno un apparato industriale che pesa sul Pil più o meno come quello dell’Umbria, vedano un effetto dell’industria sui servizi ad alto valore aggiunto molto più forte che in Umbria. Da noi l’impatto c’è, ma sui servizi a minore valore aggiunto (commercio e così via). È che le Marche hanno mantenuto in loco dei campioni industriali, con tutta la filiera che ne consegue.

* Direttore responsabile
Il Giornale dell'Umbria

L'intervento è stato pubblicato nell'edizione di giovedi 27 agosto 2015 del quotidiano che, cordialmente, ha concesso questa riproduzione anche a Umbrialeft.

 

 

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