di Alfonso Gianni - IL Manifesto 05.03.2022

Gli incontri tra le delegazioni russa e ucraina si succedono mentre sul campo le armi non tacciono. La precondizione di un vero “cessate il fuoco” non è stata ancora raggiunta. La speranza di una soluzione negoziata del conflitto è indubbiamente flebile, appesa a un filo, continuamente in balia dei bombardamenti, della scia di sangue che non evita i civili, del rilancio delle minacce fino a quella di uno scontro nucleare, mentre le centrali a fissione, quelle ridotte a un deposito di scorie (Chernobil), come quelle in attività (Zaporizhzhia) diventano un obiettivo militare potenzialmente capace di innescare distruzioni umane e ambientali dilatate nello spazio e nel tempo. Per quanto quel filo sia esile, facile a venire strappato, ancora tiene. Gli incontri non si sono interrotti e pare proseguano nei prossimi giorni. Per quanto temeraria possa apparire la speranza che si ripone in questa trattativa essa ci appare come l’unica strada realisticamente perseguibile. Solo che andrebbe difesa e aiutata. Ma come? Intanto si può dire cosa non si sarebbe dovuto e non si dovrebbe fare. La strada di inviare “armi letali” all’Ucraina va nella direzione esattamente opposta. La questione non riguarda solo l’Italia, ma tutta la Ue e in particolare alcuni paesi che hanno avuto un ruolo tragico nella storia europea del novecento, particolarmente nel loro rapporto con i territori della attuale Russia. Il riferimento alla Germania è d’obbligo. Siamo di fronte ad un capovolgimento delle politiche di questo paese nei confronti dell’est europeo che invece ne avevano accompagnato e aiutato la ricrescita economica e politica fino a farlo diventare un pilastro dell’Unione europea. La decisione del socialdemocratico Scholz di incrementare la spesa militare cambia di botto il ruolo della Germania, cancellando anni di Ostpolitik da Brandt alla Merkel, sebbene in chiave assai diversa. Con questa scelta il tema della sicurezza europea assume una curvatura marcatamente bellicista. I decreti di Draghi, con il rapido passaggio dalle armi non letali a quelle che invece lo sono, cancellano la condizione di neutralità del nostro paese, garantita da una legislazione antica ma ancora vigente; rompono l’equilibrio che idealmente intercorre fra l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra …”) e il 52 (richiamato in queste pagine da Massimo Villone) che ci dice che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”; trascinano il nostro paese in una condizione di belligeranza, cosa ben diversa da una missione di peace-keeping d’interposizione, come è stata effettuata in altri luoghi e circostanze più praticabili. Sperare che questo Parlamento possa vigilare poi sulla destinazione e l’uso di quelle armi appare davvero illusorio. Perché il filo della trattativa non si spezzi bisogna che oltre alle parti in causa prenda corpo una mediazione credibile e autorevole. In diversi hanno fatto il nome della Merkel. Non c’è dubbio che la sua figura resta ancora oggi la più autorevole sullo scenario europeo. Non è certo l’attivismo di Macron che la può sostituire, sia per deficit di credibilità sia per i suoi trascorsi d’interventismo bellico. Ma una questione come questa che rischia di portare il mondo sulla soglia, persino varcabile, di una terza guerra mondiale, non può essere messa in mano a una persona sola. Siamo ben lontani dalla prospettiva di dare una Costituzione alla terra, come ci raccomanda Luigi Ferrajoli, ma certamente ci si dovrebbe attendere ben di più e di diverso dall’Onu. Questa guerra ne mette a nudo i limiti e l’impotenza. La sua profonda riforma è indispensabile. Ma da subito chi lo rappresenta, a partire dal segretario generale, dovrebbe agire per costruire questa mediazione. E così vale per la Ue e i suoi organi, a partire dal Parlamento. Dove è finita la tanto decantata Conferenza europea? Al suo posto Paesi come la Polonia già si sentono investiti del ruolo di bastioni contro il resuscitato impero del male, pretendendo in cambio di non essere tormentati sullo mancanza di uno stato di diritto, come ha affermato il premier polacco Morawiecki. Il problema non sta nell’aprire l’ombrello della Ue per farvi precipitosamente andare sotto l’Ucraina, ma costruire una presenza fatta di politica e di diplomazia capace di sostituirsi alla Nato, il cui scioglimento sarebbe un atto storico dovuto. La soluzione non può che essere trovata in un accordo che preveda la neutralità dell’Ucraina, nel contesto di una conferenza internazionale, come successe a Helsinki nel 1935 a favore della Finlandia. Regolando in quel quadro lo status della Crimea e del Donbass. Chi può portare avanti questa prospettiva se non un ampio movimento per la pace, articolato, ma unito sui temi di fondo. I tempi per ridare forza alla “seconda potenza mondiale” sono quelli che abbiamo di fronte.

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