di Stefano Vinti

Caligola, soprannome con cui è noto Gaio Giulio Cesare Germanico (Anzio 12 – Roma 41 d.C.),  imperatore romano (37/41). Il suo soprannome deriva dalla “Caliga”, calzatura militare che egli portava quando, bambino, si trovava con il padre negli accampamenti romani (14/16) e fu fatto sfilare abbigliato da legionario come una mascotte davanti alle truppe, ammutinate, e ciò contribuì a sviluppare il suo amor proprio e l’innato desiderio di adulazione.

Figlio di Germanico e di Agrippina, pertanto legato alla casa di Ottaviano Augusto (Germanico era figlio di Antonia Minore, la nipote di Augusto), Caligola fu designato alla successione da Tiberio, che aveva adottato Germanico nel  4 d.C..

L’avvio del Governo di Caligola fu accompagnato da un forte entusiasmo del Senato, che vedeva nei suoi legami con Germanico e la casa di Augusto una garanzia per il ripristino di buoni rapporti.

Caligola esordì, infatti, con un discorso tollerante, condannando in parte la memoria del predecessore Tiberio, che non fu divinizzato, e al tempo stesso legando a sé i pretoriani, cui diede un donativo doppio di quello promesso dallo stesso Tiberio. Un patrimonio di consenso e simpatia largamente diffuso anche tra la popolazione e le legioni, in ragione del fatto che i genitori, Germanico e Agrippina Maggiore, lo lasciarono erede dell’enorme favore popolare.

Gli storici antichi, la loro tradizione e la loro fantasia, sulle azioni di Caligola, hanno calcato pesantemente la mano, ma indubbiamente furono stravaganti, esibizionistiche e paradossali, tanto da essere considerate al limite della follia.

Nel romanzo “Caligula” di Maria Grazia Silato, edito dalla Mondadori, Gaius Caesar Germanicus, detto Caligola, ne esce, certamente, come un uomo più avanti del suo tempo.

Era un imperatore giovane, forse megalomane, e forse anche molto solo, ma aveva un progetto, un sogno: realizzare una pace mediterranea ma sotto l’egida di un Impero romano troppo potente per poter accettare un simile compromesso.

Per questo Caligola fu ucciso a soli 29 anni, con la moglie Milonia e la figlia di pochi mesi, dopo 4 anni di regno, da una congiura ideata dal Senato e dai Pretoriani, il 24 gennaio 41, opera dei tribuni pretoriani Cassio Cherea e Cornelio Sabino.

 

Questa la tesi che la scrittrice Maria Grazia Silato porta avanti nel suo romanzo, il cui sottotitolo è “Il mistero di due navi sepolte in un lago. Il sogno perduto di un imperatore”. Un imperatore del quale si costringe a ripensare totalmente l’immagine e la sua storia.

La sua tesi poggia su una storia affascinante che si è confusa con la leggenda. La leggenda di due navi sepolte nel piccolo lago di Nemi a Genzano, a pochi chilometri da Roma.

Fino alla seconda guerra mondiale, il lago custodì le uniche testimonianze di un’ avanzata tecnica navale romana, ovvero le navi più grandi dell’ antichità, di cui nessuno storico fece mai menzione.

Per secoli si costruirono storie sul tesoro nascosto nel lago, e il fatto che molti riuscissero a pescarvi tracce delle ricchissime navi confermava l’ipotesi.

Nel 1928 si procedette  ad un parziale prosciugamento, a 10 metri di profondità comparve la prima nave, lunga 71 metri e dopo 6 mesi la seconda, lunga addirittura 73 metri.

La scoperta, sorprendente, è che le imbarcazioni erano fatte per galleggiare ma non per navigare.

Che funzioni avevano le due navi? Si trattava di navi-tempio, palazzi galleggianti dedicati al culto di Diana, dea della Luna e dei boschi.

E proprio perché lo sguardo della statua di Diana potesse guardare la luna piena, simbolo della vita che ogni mese cambia e si rigenera, sulla prua della nave era stata costruita una piattaforma rotante.

Caligola fu ammiratore morboso della cultura orientale e in particolare per  la dea egiziana Isis, cioè la Diana di Roma. Chi ha distrutto le navi e seppellito con esse il sogno di pace di un imperatore, che secondo la Silato era democratico e aperto all’ intercultura? Le chiglie vennero spaccate a colpi d’ascia, facendo affondare le navi, ancora nuove, con i loro tesori. Perché? Fu la grandezza di Roma a determinare la morte dell’imperatore, sostiene la Silato, il Senato romano con era ancora pronto a quello che la modernità di Caligola pretendeva. Tutte le sue innovazioni furono fatte passare per follie.

“Io voglio solo la luna, Elicone. So bene in che modo morirò. Non ho ancora esaurito tutto ciò che può alimentare la mia vita. Perciò voglio la luna”. Così il Caligola raccontato da Albert Camus attendeva la fine dei suoi giorni, inseguendo la luna.

Nel  1935 le due navi finivano nel museo costruito per loro, ma furono ridotte in cenere il 31 maggio 1944 dai tedeschi in ritirata.

Rimangono i modelli, esposti al Museo delle Navi Romane di Nemi.

Per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Caligola, si consiglia “Caligola” di Daniel Nony. Nell’immaginario collettivo Caligola viene ormai visto come una figura mitica immediatamente collegata a torbide storie di sangue e di sesso, di folli atteggiamenti ed eccessi crudeli. In questo volume Daniel Nony offre un’affascinante ricostruzione biografica procedendo a una revisione profonda di questa immagine tradizionale, al fine di delineare finalmente un ritratto che non risponda solo alle sollecitazioni della fantasia e del preconcetto, ma che poggi su una precisa documentazione storico-critica. Emerge quindi un profilo di Caligola più equilibrato dove, accanto alla follia, trova posto la moderazione. Giungere a conoscenza di chi fu veramente Caligola risulta impossibile: è proprio questa impossibilità di collocarlo in una dimensione definitiva che ha alimentato il suo mito nel tempo.

Oppure leggere il “Caligola. Dietro la follia” di Aloys Winterling, ed. Laterza. Caligola incarna la mostruosa aberrazione della tirannide. Tiene un bordello nel proprio palazzo. Ha rapporti incestuosi con la sorella. Tortura e perseguita senza motivo i suoi senatori e pretende di essere adorato come un dio. Fa console il proprio cavallo. Progetta di spostare il cuore dell’impero da Roma ad Alessandria.

Pazzia? E’ la risposta che ci viene dalla tradizione. Ma non è così per Winterling.

Nelle sue pagine avvincenti, Caligola è un autocrate mosso da un cinico umorismo che strumentalizza per i suoi scopi l’opportunismo e la mancanza di scrupoli dell’aristocrazia senatoria romana per poi essere bollato alla sua morte come malato di mente. L’invenzione di un imperatore “pazzo” si prestava a squalificarne la memoria e a occultarne le personali responsabilità, anche a costo di cadere in contraddizione, la cui scoperta non è meno avvincente del racconto dei fatti stessi.

 

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