DI FABRIZIO MARCUCCI

 

PERUGIA - Quali sono i punti di forza dell'Umbria? E quali le debolezze? Le opinioni sono ovviamente libere. E ognuno si forma le sue come crede e come gli viene. Non di rado accade però che per pigrizia, mancanza di tempo e/o di fonti alternative, ci si faccia un'idea su un determinato argomento incamminandosi sulla via più battuta. Seguendo la scia tracciata dalla maggioranza, insomma. Comodo. Il problema è che non è affatto scontato che a quello che si sente più comunemente dire o che si vede più di frequente scritto si possa attribuire automaticamente la patente di veridicità. Anzi. Si tratta spesso di luoghi comuni niente affatto verificati. Che assumono forza non per quello che sostengono, bensì perché sono sostenuti da un gran numero di persone. Vengono diffusi e si alimentano grazie alla mancanza di prove contrarie. O magari perché qualcuno può aver interesse a che si propaghino. Così nascono quelle che il collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming ha definito le «narrazioni tossiche»: costruzioni e spiegazioni basate sul vuoto che diventano "vere" solo perché è la maggioranza a farle proprie.

Allora, tornando all'inizio. Quali sono i punti di forza dell'Umbria? Quali le debolezze? Dopo una premessa del genere, non si può certo porre sul piatto l'ennesima "verità". Però, tentare di offrire un punto di vista sulla base di alcuni dati e non preso in prestito all'ipermercato delle idee taroccate quello sì, si può tentare di farlo. Anche sfidando la corrente maggioritaria che soffia in senso contrario. Bene, allora. Il punto di vista è questo: se l'Umbria tiene ancora - seppure incespicando, scivolando e rischiando di cadere - è grazie a una struttura costruita nei decenni passati, che continua a sostenersi quasi miracolosamente in tempi segnati dall'avvento della religione dei tagli, e che si deve in gran parte a ciò che viene definito "pubblico". Ciò non significa che il "pubblico" sia esente da difetti, anzi. Significa però che storicamente lo sviluppo di questa regione è passato da lì. E significa - questo è quel che più conta in questa sede - che tuttora il collante umbro è di marca pubblica.

I dati. Arrivano in massima parte da un lavoro che Cnel e Istat hanno fatto insieme, mettendo in comune le rispettive competenze di istituti blasonati e al di sopra di ogni sospetto. Il lavoro si chiama Bes, e punta a misurare il "benessere equo sostenibile" del Paese e delle regioni che lo compongono. Ma prima dei numeri del Bes - acronimo che già di per sé è un programma: una sorta di "umanizzazione" del Prodotto interno lordo - vale la pena scoprire un'altra carta, anzi due, che testimoniano come il presunto, ultra-frequentato luogo comune che punta il dito genericamente contro lo-strapotere-del-pubblico-in-Umbria, sia in realtà frutto di una narrazione tossica. La prima: da queste parti l'incidenza dei dipendenti pubblici sul totale nazionale è esattamente in linea con il peso della regione in termini di Pil e quant'altro: 1,5 per cento. Nessun gigantismo, nessun assistenzialismo mascherato, come si sente spesso dire e si vede scrivere. La seconda: l'Umbria è diventata modello a livello nazionale in tema di sanità, un settore qui completamente gestito a livello pubblico.

Passiamo ora davvero al Bes, cominciando proprio da un paio di dati che attengono alla sanità: in questa regione c'è un numero quasi doppio rispetto alla media italiana di anziani trattati in assistenza domiciliare; e anche in questo caso, ad occuparsene è personale pubblico. Ancora: c'è un più basso numero di persone rispetto alla media nazionale che rinunciano a cure pubbliche a causa delle liste d'attesa troppo lunghe. Rimanendo nel campo dei servizi sociali, in Umbria accedono agli asili nido comunali 28 bambini ogni cento. Si tratta di una percentuale doppia rispetto alla media nazionale e seconda in Italia solo a quella dell'Emilia Romagna, regione notoriamente all'avanguardia nel settore. E avere asili nido efficienti - la questione va almeno menzionata - significa non solo "politiche per l'infanzia" ma anche assecondare il cammino sociale delle donne tentando di sgravarle almeno in parte da un lavoro di cura che grava quasi completamente sulle loro spalle. Si può continuare con i dati relativi a una rete idrica che fa meno acqua rispetto al resto del Paese, con quelli degli allacci alla rete del metano in numero mediamente superiore a quello del resto del Paese, e con quelli che testimoniano di un sistema di raccolta dei rifiuti che sta recuperando le lacune accumulate in passato. Tutte questioni afferenti al pubblico.

Dove invece l'Umbria è carente, è sulla frontiera che potrebbe lanciarla nell'eccellenza italiana e non solo, e soprattutto proiettarla nel futuro. Quella della ricerca e dell'innovazione: in questa regione gli investimenti delle imprese in ricerca costituiscono una fetta più sottile della media italiana (0,9% sul Pil contro l'1,3). Ancora: il numero di brevetti registrati all'Ufficio europeo è del tutto trascurabile e il numero di occupati in settori definiti di «alta tecnologia» è di un terzo inferiore alla media nazionale; le innovazioni introdotte dalle aziende sono sotto la media e - cosa ancor più preoccupante - la tendenza degli ultimi anni è alla loro riduzione. Si tratta in questo caso di tematiche in cui è, o dovrebbe essere, il privato protagonista indiscusso. Ciò non significa, ovviamente, che si debba procedere a una "nazionalizzazione" dell'Umbria perché qui il "pubblico" va bene. E non vuol dire neanche criminalizzare il settore privato che comunque investe molto e sconta in questa regione debolezze strutturali e storiche. Infine, ma non per ultimo in ordine di importanza, capita che il pubblico, anche in una regione dove è a livelli alti, riesca a volte a dare il peggio di sé e debba comunque migliorarsi.

Solo che, prendere atto di dati del genere, potrebbe aiutare la ricerca di soluzioni adeguate al "caso-Umbria". In questa regione cioè, più che giocare alla demolizione - ideologica, "tossica" e autolesionista al tempo stesso - di ciò che va (il pubblico, appunto), occorrerebbe concentrarsi su ciò che andrebbe potenziato: quel motore "autonomo" dello sviluppo costituito dalle imprese manifatturiere e di servizi private che pur nell'impegno, salvo pochi meritori esempi, stenta a trovare una dimensione che sia di livello europeo.

La reiterata e a volte assecondata vulgata delle privatizzazioni si mostra infatti in questo pezzo di territorio una narrazione doppiamente tossica. Se applicata, sottrarrebbe infatti peso a un settore che ha segnato lo sviluppo regionale e che continua a essere fondamentale per garantire coesione sociale e non solo. Un settore, il pubblico, che potrebbe altresì offrire il suo contributo proprio per superare le debolezze storiche dell'altro motore dello sviluppo, quello autonomo. Cruciale se l'Umbria intende uscire dalla palude e guardare al futuro. Con un pubblico e un privato entrambi forti.

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