L'altro giorno mi sono soffermato a lungo a guardare la foto di una persona a me molto cara che si era appena laureata. Una ragazza splendida e piena di vita, la sua gioia sobria e contenuta, una saggezza e una maturità che vanno ben al di là dei suoi venticinque anni non ancora compiuti. Quella foto, tuttavia, mi ha colpito in maniera particolare non solo per motivi di affetto personale che non è questa la sede per rimarcare ma perché testimonia in maniera tangibile il tempo che è passato da quando Berlusconi ha vinto per la prima volta le elezioni. 
Quando accadde, il 28 marzo 1994, quella ragazza non era ancora nata, e non c'era ancora neanche la notte in cui il nostro ricevette la sua prima fiducia in Parlamento, mentre il Milan strapazzava 4 a 0 il Barcellona di Crujiff nella finale di Coppa dei Campioni ad Atene. 
Ebbene, in questi giorni ho confrontato spesso, mentalmente, l'immagine di quella ragazza e quella di Berlusconi: da una parte, il trionfo della vita e del futuro; dall'altra, un senso di pesantezza, un odore di stantio, una fastidiosa sensazione di passato e di già visto, l'idea di un'eterna recita sempre uguale a se stessa che, incredibilmente, sembra non aver ancora stancato del tutto gli italiani. 
È la stessa sensazione che provavo tre anni fa quando osservavo e sentivo ragionare ragazze e ragazzi del '92: mi bastavano i loro discorsi per comprendere che la Clinton, che si ostinata a parlare all'America di suo marito, avrebbe fatto molta fatica ad avere la meglio su Trump, cosa che infatti non è successa, con tutto ciò che questa tragedia ha comportato in seguito. 
Berlusconi, dal canto suo, ha avuto un ruolo storico innegabile e senza dubbio gli saranno dedicati ampi capitoli nei libri di storia su cui studieranno i nostri figli e nipoti. La sua, infatti, non è stata solo una stagione di governo ma una rivoluzione culturale purtroppo riuscita, partita dal fenomeno televisivo e calcistico ed estesasi poi alla politica, grazie al crollo della Prima Repubblica nel biennio '92-'94 e alle strazianti e ciniche vicende che hanno agevolato quel passaggio d'epoca. Non c'è dubbio, difatti, che il sangue di Falcone e Borsellino abba eserciato un ruolo crucuale nello smantellamento dell'assetto ormai morente della nostra prima stagione relubblicana. Così come non c'è dubbio che nulla, specie a auei livelli, possa avvenire per caso e che anche il mito dell'imprenditore che si è fatto da solo e un giorno, improvvisamente, ha sentito la chiamata della Patria in pericolo vada bene per qualche cerimonia della fu Forza Italia ma non regga al cospetto di un'analisi storica minuziosa del contesto e delle forze in campo. 
Berlusconi è finito: questo è evidente e il primo a saperlo è proprio lui. Il berlusconismo, al contrario, non è mai stato così bene, essendo perfettamente in grado, a differenza del fragile renzismo, di andare ben al di là delle sorti del suo fondatore. Come ebbi modo di scrivere in un articolo di qualche mese fa, esso ricopre ormai una funzione hegeliana, essendosi diffuso ovunque e avendo innescato tanto il populismo di destra quanto il populismo analogico del PD e quello digitale dei 5 Stelle. 
Il berlusconismo, prima e più pervasiva ed efficace forma di populismo nella storia del nostro Paese, ha spianato la strada a tutti i successori, i quali ne hanno ripreso le intuizioni e il linguaggio, perfezionato i metodi e accettato l'egemonia culturale, senza mai porsi neanche il problema di andare oltre o di contrastarlo sul terreno delle forme, prima ancora che dei contenuti. 
Il berlusconismo, oggi che il suo artefice batte in ritirata, anche per evidenti limiti d'età, è all'apice del suo trionfo, non avendo neanche più bisogno di presentarsi alle elezioni per essere di moda, visto che nessuno sembra voler giocare su un altro terreno, se non poche forze minoritarie rese ininfluenti dalla propria assurda litigiosità. 
La campagna elettorale permanente, tanto per dire, è l'esaltazione del partito Fininvest, così come i talk show a tutte le ore del giorno e della notte, i toni urlati, la ricerca di divi e starlette per comporre le liste elettorali, il progressivo svuotamento delle funzioni parlamentari, l'onnipotenza ostentata del governo, il mito dell'uomo solo al comando e, ultimo episodio in ordine cronologico, il clamoroso atto di Salvini, il quale, evitando di andare a processo grazie a un voto del Senato, si è di fatto proclamato "legibus solutus", decretando la possibilità per chiunque stia in maggioranza di porsi al di sopra della legge, di sfuggire ai processi e di ammantare di nobiltà politica un'azione, il trattenimento a bordo della nave Diciotti di quasi duecento persone in fuga dalla miseria e dalla guerra, che nulla ha a che spartire con i compiti e i poteri di cui un governante possa disporre in uno Stato democratico e di diritto. In quel momento, anche per via del voto contrario dei 5 Stelle, venticinque anni di predicazione berlusconiana hanno conseguito lo scopo, trasformando il soggetto politico che in campagna elettorale, per anni, gli ha dato del mafioso, del piduista e dell'avvelenatore della moralità pubblica nell'attuatore scrupoloso dei suoi precetti. 
E così, con un PD che non riesce ancora a liberarsi del renzismo, ossia di una versione aggiornata e meno scaltra del berlsuconsimo, una Lega nata con il cappio dell'onorevole Leoni Orsenigo contro i corrotti di Tangentopoli e oggi schierata come un sol uomo in difesa del proprio leader, un Movimento 5 Stelle di cui abbiamo già detto e una sinistra ridotta pressoché alla lotta clandestina, in questo contesto, il berlusconismo ha trovato la propria definitiva legittimazione.  
Oggi, rispetto a un quarto di secolo fa, siamo meno liberi, più feroci, per nulla o quasi solidali e  proni all'ideologia thatcheriana dell'individualismo elevato a virtù, ossia siamo berlusconiani all'ennesima potenza, proprio come dopo vent'anni di predicazione mussoliniana eravamo fascisti al midollo, ricondotti sulla via democratica unicamente dalla guerra e dall'invasione nazista che fece seguito all'Armistizio. 
In mancanza, grazie a Dio, di un conflitto, oggi dobbiamo rassegnarci all'idea che al massimo sia possibile sconfiggere Berlusconi, il quale peraltro ormai provvede da sé, ma non il substrato culturale che egli ha saputo creare, non le radici che egli ha saputo piantare nel terreno, non i dogmi su cui ha strutturato una società sfregiata, irriconoscibile e gravemente spoliticizzata, in cui le minoranze faticano a unirsi e i giovani non riescono a entrare nel dibattito pubblico e, meno che mai, ad esserne protagonisti. 
Nella paralisi del Paese, nel suo imbarbarimento, nella sua palese volgarità, nella sua incertezza, nella sua sfiducia nel futuro e nel suo vedere gli ultimi contrapposti ai penultuimi in una guerra fratricida i cui unici beneficiari sono coloro che traggono vantaggio dallo status quo, in questo quadro di sfacelo si avverte il trionfo, persino al di là dei suoi meriti, di un uomo senza ideali ma capace di diventare un'ideologo, trovando la via italiana al reaganismo senza neanche quell'equilibrio di pesi e contrappesi che innerva il sistema americano. 
Berlusconi, venticinque anni dopo, è il dominus al centro della scena, al punto che secondo me sbaglia a ricandidarsi, assecondando la propria indole pugnace e il proprio costante bisogno di immunità parlamentare. E non so se la nostra generazione, cresciuta attaccata alle mammelle delle sue televisioni, sia riuscita a sviluppare anticorpi sufficienti al sul modello. 
Questa è la disfatta del nostro Paese, la nostra amara eccezionalità, proprio mentre il mondo avverte un nuovo bisogno di collettività e i giovani si mobilitano per il clima e per tante altre battaglie sociali, culturali e civiche di respiro globale che lasciano ben sperare, nonostante il berlusconismo abbia fatto scuola anche in America, giungendo direttamente alla Casa Bianca in una versione addirittura peggiore rispetto all'originale. 
Ai tempi di Blair, i commentatori più lucidi scrissero che la vera vittoria della Thatcher fosse stato il successo del New Labour, ossia la landslide conseguita da un finto uomo di sinistra, più conservatore e guerrafondaio della storica leader dei tories. 
Nell'Italia contemporanea, si può dire che ci si divide fra berlusconiani per convinzione, berlusconiani per convenienza, berlusconiani per rassegnazione, berlusconiani per età e berlusconiani per lenta ma progressiva evoluzione culturale. Da ciò si comprende il disastro in cui siamo immersi e la fatica che dovrà compiere chiunque voglia provare a immaginare un orizzonte diverso, sconfiggendo innanzitutto quello che Gaber definì, con il consueto genio, "il Berlusconi in me". 

P.S. In tanta malora mi manca la saggezza di Ugo La Malfa, storico leader repubblicano al cui quarantesimo anniversario della scomparsa è dedicato quest'articolo. 
 

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