di Stefano Gallieni - TransformItalia.

Il primo novembre del 2014, mentre infuriavano i combattimenti nel Rojava attaccato dalle milizie dell’allora forte ISIS, in centinaia di città del mondo ci furono manifestazioni di piazza al grido di “salvare Kobane”, quella che stava divenendo la città martire della resistenza. A difendere la città uomini e donne, soprattutto donne, non solo curde ma delle tante minoranze presenti nell’area, uomini e donne che insieme alla città difendevano un esperimento politico e sociale che potrebbe essere da esempio per il terzo millennio. Lo hanno chiamato “confederalismo democratico”, per prendere le distanze da ogni forma di nazionalismo, soprattutto da quei modelli dominanti fondati su base etnico/religiosa e che hanno permesso a dittatori come Erdogan di agire impuniti e indisturbati. E chi ha avuto il privilegio di incontrare esponenti di questo tentativo rivoluzionario vero e proprio restava stupito nel vedere come, al di là della durezza dello scontro militare, in Rojava si pensava ad un futuro di forte impianto socialista, antipatriarcale, ambientalista, profondamente democratico e partecipato. Oggi le ragioni crudeli e mercantili della geopolitica hanno deciso che questo esperimento va annientato, che è pericoloso, che come un morbo può espandersi nell’aria e può convincere uomini e donne, in un’area vastissima e strategica per gli equilibri mondiali, che non servono “sultani”, dittatori, dominatori per vivere bene e provare a prosperare, anzi che questi sono la prima causa di miseria, guerra, violenza e sopraffazione.

L’attacco scatenato dall’esercito turco dopo che Trump aveva annunciato il ritiro dell’impegno militare anti-ISIS nella zona, ha creato in 2 giorni quasi 350 mila sfollati. Non si contano i morti e i feriti fra i civili, del resto quando ad attaccare è il secondo esercito della NATO, equipaggiato con i migliori armamenti a disposizione, in grado di bombardare dall’altro e facendo fare il lavoro sporco a islamisti anche siriani un tempo additati come il pericolo per l’occidente e oggi ricompensati da Erdogan e non solo, con la possibilità di avere campo libero. Il “cessate il fuoco” ottenuto ad un certo punto ha sancito unicamente il soddisfacimento delle mire turche, la definizione di una “fascia di sicurezza” larga 30 km di confine turco siriano e quindi comprendente anche Kobane, da cui vanno cacciate le popolazioni kurde e delle altre minoranze e che deve restare sotto il controllo turco. L’intervento del dittatore siriano Bashar al Assad, appoggiato dalla Russia, è stato ingenuamente da alcuni interpretato come un soccorso ai curdi. L’incontro di Sochi fra Erdogan e Putin di ieri ha chiarito in realtà che erano altri gli accordi che si stavano prendendo.

Le forze kurdo-siriane, tutti coloro che riuniti intorno all’FDS (Forze Democratiche Siriane) stanno ancora difendendo l’autonomia della regione, debbono accettare di andarsene, di arretrare di 30 km lasciando campo libero al controllo turco-russo della fascia. L’obiettivo di Erdogan sembra essere stato raggiunto, liberare l’area dalle milizie troppo vicine al PKK di Ocalan e operare una sostituzione etnica vera e propria. 140 villaggi e 10 distretti in cui rimandare i profughi siriani di una guerra iniziata 8 anni fa che non torneranno a casa ma occuperanno una parte della Siria. Rifugiati selezionati in base alla propria vicinanza col regime di Ankara, spesso anche vicini al nazionalismo islamista ma che non metteranno in pericolo il regime di Assad. Le diplomazie occidentali hanno reagito passivamente, balbettando al massimo minacce di sospensione nel commercio di armi con la Turchia (i cui arsenali sono già pieni) o, è il caso degli USA, con giravolte continue in termini diplomatici e disimpegno concreto dal punto di vista militare.

Diversamente hanno reagito i tanti e le tante che in tutta Europa considerano il popolo kurdo e le esperienze del Rojava come centrali. Quasi spontaneamente in poche ore, e al di là del sostegno reale delle grandi organizzazioni sociali e pacifiste, solo in Italia sono state decine e decine le manifestazioni organizzate anche nelle province più piccole e isolate. Mobilitazioni costruite con la comunità kurda presente in Italia, con le reti di solidarietà attive da tanti anni, in una vicinanza politica ed emotiva incontenibile. Una vicinanza che non nasce da oggi. Verso la fine degli anni Novanta, quando le repressioni soprattutto in Turchia contro la minoranza kurda presente nel paese stavano raggiungendo l’apice, in molti furono costretti a fuggire in Italia, arrivarono sulle coste calabresi e pugliesi, furono ospitati e accolti dalle persone prima che dalle istituzioni. E furono in tanti a mobilitarsi allora comprendendo la portata politica del sostegno ad organizzazioni come il Partito dei lavoratori kurdi (PKK) vergognosamente ancora nella black list delle formazioni “terroriste” per UE e Stati Uniti. Un nome fra tutti è quello di Dino Frisullo, giornalista e attivista un tempo di Democrazia Proletaria, poi di Rifondazione Comunista, impegnato durante la prima intifada col popolo palestinese, poi nelle battaglie antirazziste, quindi in difesa dei kurdi. Per questo impegno trascorse anche 40 giorni in carcere in Turchia, accusato di essere “sostenitore dei terroristi”. Il suo nome divenne così noto che almeno in un paio di occasioni, all’imbarcazione che trasportava profughi dalla Turchia all’Italia veniva cambiato il nome e sulla fiancata appariva la scritta “Freezullo”.

Ma, non solo in Italia, da quell’esperienza nacque una generazione di militanti pacifisti e internazionalisti che col popolo kurdo e con le sue esperienze politiche e sociali non ha mai interrotto le relazioni. Lo stesso Ocalan, considerato forse la sola autorità in grado di intervenire, qualora si fosse messo in moto un processo di pace, trovò temporaneo rifugio in Italia. La vigliaccheria del governo dell’allora centro-sinistra, portò all’allontanamento del presidente kurdo dall’Italia. Un volo verso Nairobi per liberarsene, un intervento all’aeroporto keniano del Mossad e la riconsegna al regime turco. Da oltre 20 anni ormai “Apo”, Abdullah Ocalan, è incarcerato nell’isola di Imrali, in condizioni pessime e in isolamento. La sua condanna a morte è stata sospesa e tramutata di fatto in ergastolo. Lui continua a scrivere e progettare un mondo diverso in cui il pluralismo culturale, religioso, linguistico, potrebbero costruire convivenza fra i popoli. Negli anni sono state tante le mobilitazioni per la sua liberazione e per la pace in Turchia mentre proseguivano, nel silenzio delle cancellerie europee, gli attacchi militari e le persecuzioni verso i kurdi, nonostante una fine delle ostilità dichiarata e praticata dal PKK da tempo.

Un movimento solidale che si radicava intanto in Europa mentre in Turchia Erdogan acquistava sempre maggiore potere e alimentava un revanscismo in cui si coniugano il sogno di rivedere l’Impero Ottomano, la “Grande Turchia” e la torsione islamista. Un percorso anche favorito dal rifiuto europeo di far entrare, a condizioni di una revisione radicalmente democratica dello Stato, la Turchia nell’Unione. Dal 2011 la situazione è radicalmente cambiata con l’esplodere del conflitto in Siria dove contendenti esterni ed interni hanno portato un quinto della popolazione a dover fuggire. Circa 3,5 milioni di profughi siriani vivono oggi in Turchia, nelle periferie delle città, spesso in condizioni di povertà e di isolamento. Una crisi economica perenne li ha fatti divenire il bersaglio di una guerra fra poveri, non hanno diritti, vengono costretti a lavorare in condizioni di precarietà e con bassi salari, quanto basta per divenire “il problema” per i tanti milioni di indigenti turchi. Circa 850 mila profughi sono riusciti nel 2015 ad entrare in Europa, soprattutto in Germania, all’inizio accolti con entusiasmo, poi respinti. Arrivavano attraversando la balkan route o dalla Grecia, arrivavano e arrivano tutt’ora perché in Siria è impossibile ad oggi sperare in un futuro. Nel 2016, 17/18 marzo, dopo mesi di trattative veniva sancito un accordo fra UE e Turchia in base alla quale l’Unione si impegnava a versare in due tranche 6 miliardi di euro in cambio dell’impegno a trattenere i profughi. Questi sono divenuti così anche una formidabile arma di ricatto per Erdogan che oggi minaccia di rompere i patti e di “mandare in Europa i siriani”, se non arrivano altri soldi e se l’UE interviene a impedire la realizzazione dei suoi piani.

In questo scenario si è scatenata l’offensiva nel Rojava ed è ripartita la mobilitazione solidale. Continuano giorno dopo giorno in tutta Europa, e non solo, le iniziative per sostenere le popolazioni, kurde e delle altre minoranze, che resistono. E il primo novembre sarà giorno di mobilitazione globale ancora una volta per difendere Kobane e tutte le altre città e villaggi meno famosi ma altrettanto crudelmente colpiti. In Italia ci sarà una manifestazione nazionale a Roma indetta dalla comunità kurda. Un corteo, salvo diverse disposizioni imposte dalla Questura che, evidentemente anche condizionata dal Viminale e dalla Farnesina, pongono problemi legati alle festività religiose in Italia. La stampa e l’informazione mainstream che all’inizio delle operazioni militari turche avevano dato ampio spazio alla resistenza delle YPG (Unità di Protezione Popolare) e dello YPJ (le organizzazioni combattenti di donne), già stanno relegando nella marginalità le notizie, come se l’intervento russo e siriano avessero risolto positivamente il conflitto. Un errore strategico dettato da cinismo e ignoranza, quando va bene, per questo è importante essere in piazza il primo novembre ricordando le tante ragazze e i tanti ragazzi che in quell’angolo di pianeta, peraltro anche vicino, stanno da soli combattendo una battaglia partigiana che riguarda anche noi.

Condividi