di Simone Fana* - Jacobin Italia.

La riduzione dell’orario di lavoro è una rivendicazione antica che muove dagli albori del movimento operaio e arriva sino ai giorni nostri. In questo lungo tragitto il tempo di lavoro è il filo che unisce epoche e protagonisti, rivoluzioni e sconfitte. Ed è forse proprio dentro la rivendicazione di un tempo liberato, sottratto alle grinfie del Capitale, che è possibile scorgere l’origine di quella protagonista della modernità che è stata la classe operaia. Una storia che arriva in questo primo scampolo di millennio, dentro le contraddizioni di un’epoca in cui il progresso tecnico convive con il ritorno del cottimo e dell’estensione della giornata lavorativa.

Tra storia e politica

Primo Maggio 1886, Chicago, è la data che segna un passaggio, non un inizio, ma una rivelazione. Una massa enorme di lavoratori e lavoratrici sfilano per la città americana per rivendicare le 8 ore di lavoro. La memoria di quel giorno diventa una festa da ricordare, la festa dei lavoratori e delle lavoratrici, non la festa del lavoro. Una data da cui si dipana la trama degli eventi futuri, che porta sopra la superficie della storia la portata di una battaglia di parte. Da Manchester a Detroit, da Pietroburgo a Stoccarda nulla sarà come prima. La battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro si accende al tramonto del diciannovesimo secolo e splende ruggente nell’alba del Novecento. Il tempo di lavoro diventa il terreno principale in cui si svolge la contesa tra operai e capitale, nel solco delle intuizioni che il giovane Marx consegnava all’eredità del pensiero rivoluzionario. L’idea che per il capitale il tempo di lavoro sia una grandezza variabile da manipolare a proprio piacimento, allungando e intensificando la giornata lavorativa per estrarre profitto, sveste i panni della profezia teorica e assume il piano del conflitto quotidiano. La classe operaia rivendica le 8 ore di lavoro e aumenti salariali. Orario e salario diventano i due assi su cui si organizza la lotta di classe nelle due sponde dell’atlantico, dentro le grandi fabbriche siderurgiche, nel settore automobilistico, nelle officine tessili “Più salario per meno ore di lavoro” è il cuore di una rivendicazione che da lì in avanti non si fermerà ai confini della fabbrica, ma travolgerà l’intera società.

All’inizio del Novecento l’Occidente conosce le prime leggi che riducono l’orario di lavoro. In Italia, nel 1919 l’accordo tra la Fiom e la Federazione degli Industriali Metallurgici sulle 48 ore settimanali sarà il preludio per il decreto del 1923 che estende i termini dell’accordo all’insieme della forza lavoro. Un limite che verrà ulteriormente toccato nel ciclo di lotte che accompagna gli anni Sessanta e Settanta. Il momento più alto della forza operaia, il tempo in cui l’attacco tocca il cuore del meccanismo capitalistico, l’orario di lavoro è la leva per rovesciare i rapporti di comando, la direzione dello sviluppo capitalistico. Mentre le 40 ore settimanali diventano la norma e nelle punte più avanzate del movimento operaio europeo si arriva a una riduzione a 36 ore settimanali, il fronte padronale avverte la necessità di una risposta. Parte da questa contingenza, a questa altezza dello scontro di classe, l’inizio del ciclo neo-liberale che si apre nella seconda metà degli anni Settanta e abbraccia il primo decennio del nuovo millennio. L’orario di lavoro diventa un bersaglio su cui si accanisce la sete di vendetta della classe capitalistica. Dagli anni Ottanta al primo decennio del ventunesimo secolo i tempi di lavoro variano unicamente sotto il controllo dell’impresa, che manovra e detta i ritmi della ristrutturazione capitalistica. Intensificazione dei turni ed estensione della giornata lavorativa convivono con politiche deflattive per spegnere alla radice le scintille della lotta operaia. Il tempo di lavoro è tutto e il tempo libero è nulla – parafrasando Marx – diventa la nuova religione che ridefinisce i rapporti di classe.

Fine del tempo e fine della storia

Il punto più alto dell’egemonia neoliberale si struttura su due punti nodali: l’attacco al nesso tra lavoro e cittadinanza e la visione neutrale del progresso tecnologico. L’obiettivo dichiarato è sciogliere il conflitto capitale-lavoro dentro una spinta alla normalizzazione delle relazioni sindacali e della lotta dentro e fuori i luoghi della produzione. Fine della storia e fede nelle virtù salvifiche della modernizzazione capitalistica costituiscono le due meta-teorie che informano il trentennio inglorioso, rompendo alla radice il riconoscimento di una diseguaglianza di potere tra le parti. Il punto di vista dell’impresa diventa il punto di vista della società. Il capitale da parte si fa tutto. Tempo di lavoro e salario divengono le due variabili dipendenti da consegnare nelle mani “visibili” della classe capitalistica, leve da manipolare per accrescere la produttività del lavoro e la competitività delle imprese. Il discorso ideologico della classe capitalistica si trasforma in discorso scientifico, neutro, incontestabile. Una rivoluzione cercata e voluta, raccontata con le armi taglienti della propaganda che si diffonde tra le aule universitarie, nelle pagine dei quotidiani fino a divenire verità incontestabile nel dibattito politico. Le cause delle fluttuazioni del ciclo economico e dei ritardi strutturali delle economie occidentali vengono imputate all’alto costo del lavoro, in una parola ai salari, troppo alti per permettere alle imprese di vincere la battaglia della globalizzazione. Si deve lavorare di più e più a lungo. Agganciare i salari alla produttività, in una parola al potere di comando dell’impresa sul chi, come e cosa produrre. Il richiamo martellante a riforme che insistono sulla necessità di intervenire unicamente sul lato dell’offerta diventano realtà oggettive, neutre, che eludono il rapporto di forza tra le classi. Le politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro, la rincorsa agli straordinari, il controllo totalitario delle imprese sui turni e l’organizzazione del lavoro, l’aumento dell’età pensionabile rappresentano plasticamente il salto di una costellazione ideologica in scienza oggettiva. Il progresso tecnico viene utilizzato come strumento per intensificare gli orari, frammentare il ciclo di produzione e disciplinare la classe lavoratrice. Da leva di emancipazione si trasforma nel suo contrario, arma di distruzione della civiltà del lavoro, di impoverimento di massa. Si allargano i differenziali tra la crescita della produttività e i salari. L’obiettivo del recupero del profitto è raggiunto. Disoccupazione, sotto-occupazione e povertà nel lavoro rappresentano l’altra faccia di questa fase storica, che culmina con la grande crisi del biennio 2007/2008.

Tempo rubato tra vita e lavoro

Negli anni successivi al cataclisma finanziario che attraversa le due sponde dell’Atlantico, i governi delle principali economie europee – su pressioni delle potenti organizzazioni economiche (Fmi e Bce) – applicano politiche di consolidamento fiscale con tagli alla spesa pubblica e interventi di riforma dei mercati del lavoro, all’insegna della liberalizzazione e flessibilizzazione dei rapporti di lavoro. Le misure di austerità colpiscono in particolare i ceti operai e fasce di lavoro impiegatizio nel settore pubblico e privato, che conoscono una contrazione del potere d’acquisto reale dei salari. Il conseguente aumento delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e nella dinamica salariale è elemento di stretta attualità. In questo ciclo politico-economico, l’Italia assume una posizione di avanguardia delle cosiddette riforme strutturali. Dal governo Monti, passando per la breve esperienza del governo Letta – e  per arrivare agli anni di Matteo Renzi, i principali provvedimenti approvati riguardano l’allungamento dell’età pensionabile, la riforma del mercato del lavoro con l’attacco all’articolo 18, il blocco del turn over nella pubblica amministrazione e la liberalizzazione dei servizi commerciali, con la deregolamentazione delle aperture nei giorni festivi. Politiche funzionali a una ristrutturazione dei rapporti di forza e all’indebolimento della forza del mondo del lavoro. Tempo di lavoro e salario diventano i bersagli dell’agenda neo-liberale. Mentre la dinamica salariale segue una lunga tendenza di ristagno in un contesto di deflazione, le ore medie lavorate per addetto continuano a crescere superando abbondantemente i livelli raggiunti da Francia e Germania. L’Italia acuisce così i suoi elementi di anomalia nel contesto europeo. Con un tasso di occupazione inferiore del 9% rispetto alla media europea, la proliferazione dei contratti di lavoro di breve durata che coinvolgono circa 4 milioni di lavoratori e lavoratrici nel 2016 per finire con l’aumento vertiginoso del part-time involontario (che costituisce ormai il 60% del totale contro una media del 26% in Europa) il contesto economico e sociale del Paese è attraversato da squilibri sempre più ampi. In una battuta si potrebbe dire che in Italia i pochi che lavorano, lavorano tanto, mentre fasce sempre crescenti di forza lavoro vivono una condizione di precarietà estrema. Lo squilibrio nella distribuzione delle ore lavorate alimenta altri fenomeni tutti italiani: la presenza di una larga fascia di lavoro irregolare e la crescita del doppio lavoro. La frantumazione del processo lavorativo nell’organizzazione della produzione e l’estrema precarietà delle condizioni lavorative consentono alle imprese di utilizzare il costo del lavoro come leva per la competizione globale. Emblematico è il dato riferito alla domanda di lavoro delle imprese, che resta la più bassa nel contesto europeo e spiega, in parte, l’andamento stagnante degli investimenti. In sintesi, i profitti ottenuti dalla contrazione del costo del lavoro non vengono reinvestiti ma accumulati sotto forma di rendita, in assenza della funzione di stimolo della domanda interna. In questo scenario, il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro è il termometro che misura lo stato di salute della classe lavoratrice. Il tempo libero sottratto ai tempi della produzione diventa una chimera irraggiungibile per chi pur lavorando non riesce a sopravvivere. Le nuove frontiere dello sfruttamento implicano l’estensione del controllo dal tempo di lavoro al tempo di vita. L’orologio del capitale organizza l’intera giornata lavorativa e la vita intera, superando i confini della fabbrica e abbracciando gli ambiti riproduttivi. Le politiche di controllo della forza lavoro si estendono al tempo di non lavoro, che è tempo precario, instabile, costantemente a disposizione di un modello produttivo rapace. Espressione lampante della tendenza a ridurre il tempo di vita ad accessorio del capitale arriva dall’organizzazione del lavoro nei settori dell’economia digitale. I grandi oligopoli che controllano i servizi logistici e le infrastrutture materiali e immateriali del commercio impongono un controllo totalizzante sul tempo di lavoro e di non lavoro. La richiesta di manodopera pronta all’uso, nella produzione just in time convive con l’intensificazione dei turni e l’estensione della giornata lavorativa. Da Amazon, a Uber, da Deliveroo a Airbnb la tecnologia diventa un’arma potentissima per disciplinare la forza lavoro, dimostrando una cosa ovvia, che il progresso tecnico non è mai uno spazio neutro, ma terreno di una contesa politica tra forze antagoniste.

Ripartire dal tempo

La storia non è finita. Da qui si dovrebbe ripartire. Dall’assunto che il neoliberismo nelle sue diverse articolazioni non è un sistema immutabile, un disegno eterno. L’egemonia del capitalismo neoliberista è in una fase di crisi, non è dato sapersi quanto passeggera. All’orizzonte in Europa e nel Mondo emergono fenomeni oscuri, tendenze autoritarie e xenofobe convivono con piccole scintille di speranza. Se nella vecchia Europa i fantasmi di ieri si dilatano nel tempo presente, riportando alla luce parole d’ordine securitarie e violente, offrendo una risposta alle incertezze di una società dilaniata da decenni di crisi e governo della crisi, nell’altra sponda dell’Atlantico l’alternativa politica alla destra di Trump è nelle mani di un vecchio socialista, il senatore del Vermont Bernie Sanders. Con parole d’ordine precise: ampliamento dello stato sociale, salario minimo, piano pubblico per la lotta alla disoccupazione. Parole radicali che attingono ad una rottura teorica e politica con la sinistra liberal.

Da qui si parte e si deve partire anche da noi. Ed è dentro questa battaglia egemonica che si colloca la proposta per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Una misura pensata per unire una parte che è stata divisa, per ritornare a leggere la liberazione nel lavoro e la liberazione dal lavoro come terreno comune di trasformazione della società. Battaglia di parte, si è detto. E non potrebbe essere altrimenti, perché pensata per chi lavora tanto e guadagna poco e per chi non lavora. Dagli insegnanti precari che affollano un sistema dell’istruzione ridotto al collasso, agli infermieri che per colmare i buchi di organico del servizio sanitario nazionale sono costretti a turni di lavoro massacranti per finire ai milioni di operai che affollano il settore della grande distribuzione e dei servizi, costretti ad orari di lavoro che superano abbondantemente le 40 ore settimanali. Il settore pubblico, quello delle grandi imprese e delle catene della distribuzione sono gli ambiti su cui la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe riequilibrare i rapporti di potere. Per quanto riguarda il settore pubblico una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro dovrebbe essere agganciata a un piano straordinario per l’occupazione nella pubblica amministrazione. Un piano che si ponga l’obiettivo di ampliare la domanda pubblica di servizi sociali e che sia allo stesso tempo capace di rendere l’amministrazione dello Stato una leva decisiva per lo sviluppo del paese. Qui e non altrove si pone il grande tema dell’industria 4.0. L’innovazione tecnologica a servizio di una politica industriale che investa sulle infrastrutture fisiche e immateriali del paese, che indichi linee di sviluppo sostenibile, mettendo al centro i bisogni della maggioranza delle persone che lavorano e non i profitti dei pochi.

Dopo anni selvaggi di privatizzazioni e precarizzazione del lavoro pubblico è arrivato il momento di dire con chiarezza che un paese moderno è un paese che investe sulla produzione di beni pubblici, un paese che garantisce livelli di istruzione e sanitari in linea con una domanda in aumento. In Italia il tasso di occupazione nella Pubblica amministrazione è appena il 13% del totale, un sottodimensionamento rispetto alla domanda di beni primari che è alla base dell’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali, a partire dal dato macroscopico dei 12 milioni di cittadini che 2017 non riescono a pagare le cure mediche. Una misura che avrebbe un impatto rilevante sulla domanda interna, sui salari e i consumi delle fasce medio-basse stimolando l’intera economia. Ma la riduzione dell’orario di lavoro e la liberazione di tempo di vita è un’esigenza che riguarda sempre più direttamente ampi segmenti del mercato del lavoro. Dalla forza lavoro in crescita nei servizi commerciali e della grande distribuzione, che rappresenta la parte più soggetta all’aumento e intensificazione dei turni di lavoro e all’estensione della giornata lavorativa per arrivare ai settori periferici della produzione just in time. Tenuto conto della frammentazione dell’organizzazione del lavoro, la riduzione dell’orario di lavoro deve essere accompagnata da una riforma dell’istituto salariale. Qui la necessità di sostenere la contrattazione con un intervento legislativo di estensione dei minimi salariali all’insieme dei settori esposti a fenomeni di dumping contrattuale. Oggi come ieri la parola d’ordine deve tornare ad essere meno ore di lavoro e più salario.

*Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. È autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.

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