di Elena Tulipani

Dalla rivo­lu­zione indu­striale dell’ottocento la glo­ba­liz­za­zione dell’economia reale si è mani­fe­stata attra­verso l’ininterrotta espan­sione del com­mer­cio mon­diale a ritmi supe­riori a quelli della pro­du­zione. Come già rile­vato dagli eco­no­mi­sti clas­sici, la cre­scita degli scambi mon­diali ha costi­tuito un forte sti­molo all’aumento della pro­dut­ti­vità del lavoro e del capi­tale, all’innovazione di pro­dotto e alla spe­cia­liz­za­zione produttiva.

Fino alla fine del ven­te­simo secolo lo svi­luppo del com­mer­cio inter­na­zio­nale non aveva però influito diret­ta­mente sulla pro­prietà del capi­tale, che aveva man­te­nuto carat­te­ri­sti­che pre­va­len­te­mente nazio­nali. Quando un paese aveva minor pro­dut­ti­vità e non espor­tava abba­stanza, il peg­gio­ra­mento della bilan­cia dei paga­menti tro­vava un rie­qui­li­brio attra­verso sva­lu­ta­zioni "com­pe­ti­tive" della moneta. Nel cam­mino eco­no­mico degli ultimi due secoli, il capi­tale, lo stato e la moneta hanno quasi sem­pre viag­giato insieme. Ora gli "aggiu­sta­menti" della bilan­cia dei paga­menti si effet­tuano in misura cre­scente attra­verso flussi di capi­tali, sia finan­ziari che di inve­sti­menti diretti nell’economia reale. E sta cam­biando rapi­da­mente, in que­sto modo, la pro­prietà del capi­tale in tutto il mondo.

Secondo il rap­porto "Ita­lia mul­ti­na­zio­nale 2012" dell’Istituto com­mer­cio estero, alla fine del 2007 gli inve­sti­menti diretti esteri ave­vano rag­giunto nel mondo il valore di quasi due­mila miliardi di dol­lari, qua­ranta volte di più rispetto a ven­ti­cin­que anni prima. La loro corsa si è fer­mata con lo scop­pio delle bolle finan­zia­rie nel 2001 e nel 2008, ma poi è ripresa rapi­da­mente. Si sono ampliati gli stru­menti usati per gli inve­sti­menti stra­nieri (ven­ture capi­tal, Ipo, ecc) e il capi­tale va così per­dendo il suo tra­di­zio­nale anco­rag­gio pro­dut­tivo nazionale.

Stanno cam­biando di con­se­guenza i rap­porti tra stati e capi­tale. Molti governi si muo­vono con l’idea che il paese desti­na­ta­rio degli inve­sti­menti diretti bene­fici dell’arrivo dei capi­tali esteri, e ci sono quindi spinte verso una com­pe­ti­zione tra stati per offrire con­di­zioni più favo­re­voli alle imprese. Tut­ta­via, nel lungo periodo i pro­fitti ten­dono a seguire l’origine della pro­prietà del capi­tale, uscendo dai paesi e dalle imprese dove sono stati accu­mu­lati. I paesi più deboli ten­dono così a subire le scelte degli stati più forti e delle imprese mul­ti­na­zio­nali. Tra i paesi forti che più si sono inter­na­zio­na­liz­zati, gli Usa, un esem­pio viene dal governo Usa con la recente poli­tica di incen­ti­va­zione all’«insourcing» che spinge le imprese for­ni­trici dell’amministrazione ame­ri­cana a ripor­tare nel paese pro­du­zioni che erano state delo­ca­liz­zate alla ricerca di costi di pro­du­zione inferiori.

L’Italia, l’unico paese del mondo in declino da quasi un ven­ten­nio, è stata finora coin­volta meno di altri paesi: gli inve­sti­menti cor­rono soprat­tutto verso i mer­cati in forte cre­scita, non verso quelli sta­gnanti. Secondo «Ita­lia mul­ti­na­zio­nale 2012», alla fine del 2011 lo stock di inve­sti­menti in entrata era pari al 15,2% del Pil, una per­cen­tuale che si è tri­pli­cata in vent’anni ma che resta pari alla metà di quella media mon­diale (28,7%) e a un terzo di quella euro­pea (43,2%). Il diva­rio è lie­ve­mente infe­riore per gli inve­sti­menti ita­liani all’estero, comun­que supe­riori a quelli in arrivo (23,4% del Pil).

Con la crisi, che ha por­tato la pro­du­zione indu­striale ita­liana a ridursi del 25% rispetto al 2008, siamo a un’accelerazione dell’arrivo del capi­tale stra­niero: si mol­ti­pli­cano le imprese mani­fat­tu­riere e finan­zia­rie oggetto di acqui­si­zione, a volte a prezzi di saldo. Sono apparsi di recente elen­chi di imprese ita­liane acqui­site dal capi­tale estero, la mag­gior parte appar­te­nenti ai tra­di­zio­nali set­tori di forza del made in Italy, il lusso (Bul­gari, Valen­tino, Loro Piana, Kri­zia), la mani­fat­tu­riera di qua­lità (Avio, Edi­son, Ansaldo Ener­gia, ecc), l’alimentare (Par­ma­lat, ecc.), il design, la grande distri­bu­zione, la finanza.

Secondo Libero (del marzo scorso) si arriva a 830 aziende tra il 2008 e oggi, per un valore supe­riore a 100 miliardi, un importo supe­riore agli inve­sti­menti ita­liani all’estero (340 imprese per un con­tro­va­lore di 65 miliardi). Secondo i dati di otto­bre dal Pre­si­dente dell’Aifi, l’associazione dell’industria del capi­tale pri­vato, nel primo seme­stre del 2014 ci sarebbe stata un’ulteriore cre­scita delle acqui­si­zioni del 34,3%, per 1,89 miliardi. Gli inve­sti­menti diretti in Ita­lia riguar­dano acqui­si­zioni di realtà pro­dut­tive con­so­li­date, con qual­che pos­si­bi­lità di rilan­cio o, più spesso, di ridi­men­sio­na­mento; in que­sti casi l’occupazione e le fun­zioni «avan­zate» (dalla finanza all’innovazione) sono le prime a essere ridi­men­sio­nate. Poche le nuove ini­zia­tive pro­dut­tive (i cosid­detti «green­field») che potreb­bero accre­scere l’occupazione.

Gli inve­sti­menti esteri arri­vano dalla Ger­ma­nia, che estende la sua rete pro­dut­tiva a sub­for­ni­tori in tutti i paesi vicini, da Usa, Fran­cia, Gran Bre­ta­gna. La novità più impor­tante è la Cina. A pic­coli passi la Banca cen­trale cinese ha acqui­sito nume­rose quote di mino­ranza (appena supe­riori al 2%) in tutte le prin­ci­pali imprese ita­liane: Eni (2,102%), Enel (2,071%), Assi­cu­ra­zioni Gene­rali (2,014%), Fiat Chry­sler (2,001%), Tele­com Ita­lia (2,081%), Pry­smian (2,018%). E’ di pochi giorni la noti­zia dell’acquisto di circa il 2% cento di Medio­banca, il tra­di­zio­nale salotto buono degli impren­di­tori italiani.

Un’altra impor­tante ope­ra­zione ha riguar­dato, nell’autunno scorso, la più antica società elet­trica cinese, Shan­ghai Elec­tric, che ha acqui­sito da Fin­mec­ca­nica e Cassa Depo­siti Pre­stiti il 40% di Ansaldo Ener­gia. Una pre­senza siste­ma­tica nei cen­tri pro­dut­tivi del paese che sem­bra seguire una stra­te­gia pre­cisa, e che potrebbe avere svi­luppi impor­tanti in altri casi di imprese ita­liane in crisi, dall’acciaio alla mec­ca­nica. L’esempio cinese, oltre a quello ame­ri­cano, mette in evi­denza la pos­si­bi­lità per uno stato di defi­nire poli­ti­che nazio­nali anche in un con­te­sto di estrema mobi­lità dei capi­tali, con­trol­lan­done stra­te­gie pro­dut­tive, set­tori d’investimento, acqui­si­zione di cono­scenze, pre­senze sui mer­cati impor­tanti. L’Italia sem­bra immo­bile, senza una discus­sione sulla poli­tica indu­striale e senza una stra­te­gia di fronte agli inve­sti­menti stranieri.

A set­tem­bre dello scorso anno il Governo Letta aveva appro­vato il pro­getto "Desti­na­zione Ita­lia" che inten­deva favo­rire "l’attrazione di capi­tale, finan­zia­rio ed umano, con il quale creare lavoro, sapere, e cre­scita per i nostri cit­ta­dini". In con­creto erano defi­nite 50 “misure fina­liz­zate a favo­rire l’attrazione degli inve­sti­menti esteri e a pro­muo­vere la com­pe­ti­ti­vità delle imprese ita­liane”. Da allora non si ha noti­zia di alcuno svi­luppo o effetto con­creto. La vacuità dell’attuale governo rischia di por­tare l’Italia a subire in modo pas­sivo e sostan­zial­mente incon­sa­pe­vole le deci­sioni del capi­tale multinazionale.

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