di Vincenzo Vita

Sta per tor­nare nell’aula del senato il testo sulla dif­fa­ma­zione a mezzo stampa, già appro­vato in prima let­tura dalla camera dei depu­tati nell’ottobre dell’anno pas­sato e varato poi con qual­che modi­fica a luglio dalla com­mis­sione giu­sti­zia del senato mede­simo. Nella pas­sata legi­sla­tura il tutto finì in uno scon­tro asper­rimo. Si comin­ciò con la volontà di abo­lire il car­cere e si rischiava di finire con l’epifania dei bava­gli. Il tutto si bloccò.

Ora, spe­riamo che sia la volta buona, visto che stiamo par­lando di modi­fi­care la legge che risale al 1948 e i vec­chi, ingial­liti arti­coli del codici. Anzi. Pro­prio l’urgenza di togliere di mezzo una volta per tutte la bar­ba­rie della deten­zione richiede di non sba­gliare. Il dibat­tito ple­na­rio era già «incar­di­nato» que­sta set­ti­mana. Tut­ta­via, tra giu­dici da eleg­gere e dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che del pre­si­dente del con­si­glio, è vero­si­mile che l’avvio slitti alla pros­sima set­ti­mana. Forse è meglio così.

Per­ché l’articolato licen­ziato dalla com­mis­sione lascia a desi­de­rare su alcune que­stioni cruciali.

Certo, la scelta migliore sarebbe la depe­na­liz­za­zione del reato di dif­fa­ma­zione, clas­si­fi­can­dolo come ille­cito ammi­ni­stra­tivo: né lieve, né banale, ma final­mente trat­tato come avviene in altri paesi, a par­tire dalla Gran Bre­ta­gna. Non dimen­ti­chia­moci del fatto che, se l’Italia naviga verso il ses­san­te­simo posto nel mondo quanto a libertà di infor­ma­zione, uno dei motivi è pro­prio tale resi­duo medioe­vale. Così come andrebbe isti­tuito, come pro­pon­gono da tempo gli orga­ni­smi di cate­go­ria, un appo­sito Giurì, per affron­tare in modo non trau­ma­tico almeno le con­tro­ver­sie più sem­plici. Quanto meno, però, sono indi­spen­sa­bili alcune modi­fi­che. Innan­zi­tutto, il nodo delle que­rele teme­ra­rie, deli­be­rato in prima let­tura solo per la parte penale e in misura debo­lis­sima. Serve uno stop, ren­dendo one­roso il ricorso ad uno stru­mento spesso ricattatorio.

Atten­zione. Nes­suno intende sot­to­va­lu­tare la sacro­santa tutela delle per­sone (a par­tire dai cit­ta­dini senza potere, i più espo­sti), ma l’abuso della que­rela porta ad un’obiettiva cen­sura, essendo coloro che scri­vono di argo­menti dif­fi­cili — dagli appalti alla cri­mi­na­lità orga­niz­zata — spesso col­piti da attac­chi in sede civile piut­to­sto che nei tri­bu­nali penali. È un ricatto eco­no­mico pesante, che tocca pro­fes­sio­ni­sti o pub­bli­ci­sti spesso pre­cari o free lance.

E poi. Pos­si­bile che la ret­ti­fica – indi­spen­sa­bile per supe­rare la lite — non possa avere mai una replica? Pastic­ciata rimane la vicenda della respon­sa­bi­lità «dele­gata» dei diret­tori. Chi, come, per­ché? Ancora. Si lasci per­dere la rete, che esige forme rego­la­to­rie pro­prie e diverse dalle impal­ca­ture imma­gi­nate per i media ana­lo­gici, per i pro­dotti defi­niti nel tempo e nello spa­zio. Inter­net non è terra di nes­suno, ovvia­mente, ma richiede moda­lità di inter­vento ori­gi­nali, tra l’altro in fase di appro­fon­di­mento nelle sedi internazionali.

E veniamo all’argomento deli­cato e un po’ tabù delle misure pre­vi­ste per i risar­ci­menti mone­tari. Per para­fra­sare il famoso film dei fra­telli Coen, que­sto testo non è un testo per poveri. È decli­nato dall’immaginario di chi – evi­den­te­mente — sup­pone che, al con­tra­rio, il mondo sia ricco e di ric­chi. Ci si rende conto di cosa signi­fi­cano 60.000 euro per la stra­grande mag­gio­ranza delle per­sone coin­volte, che non sareb­bero mai in grado di cor­ri­spon­dere cifre simili? Non è cre­di­bile. Si abbassi dra­sti­ca­mente una soglia che avrebbe il sapore di una tra­gica beffa. La libertà non riguarda solo l’abolizione delle catene carcerarie.

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