di Luciana Brunelli

Negli anni passati sono stati fatti diversi studi sulla San Faustino e perciò possiamo dire di avere una discreta conoscenza della brigata, del suo profilo geo-politico e della sua attività militare  che oggi vorrei solamente accennare per concentrarmi su altre questioni.

Da un primo nucleo fondato nel settembre 1943 a San Faustino dal liberale Bonuccio Bonucci, la brigata arrivò a coprire l’ampio quadrilatero compreso  tra Città  di  Castello, Apecchio, Gubbio e Umbertide. Una zona delimitata a est dalla via Flaminia verso le Marche, a ovest dalla via Tiberina verso la Toscana. Una posizione strategica che veniva tenuta sotto controllo dalla  Repubblica sociale e dai tedeschi interessati a tenere libere le retrovie, prima per il rifornimento di Roma e del fronte meridionale, poi per la ritirata verso la linea Gotica. Ciò spiega i feroci rastrellamenti della primavera 1944, a fine marzo e a inizio maggio, e spiega perché, dopo la liberazione di Perugia il 20 giugno, i tedeschi difesero il terreno palmo a palmo e rimasero a Città di Castello e sul monte Ingino sopra Gubbio fino alla seconda metà di luglio. Nella logica di quella ritirata aggressiva si colloca la strage dei 40 martiri il 22 giugno.

A  partire da aprile, per la renitenza dei giovani alla chiamata di Salò, la San Faustino aumentò sensibilmente gli effettivi fino a contare - sempre nella fluidità delle formazioni partigiane - circa 180 uomini.  Era strutturata  in  quattro gruppi:  il gruppo di Morena nel Buranese che da febbraio, dopo l’arresto di Bonucci, divenne sede del comando della brigata,  il  gruppo Montebello  a Valdescura, il  gruppo  Capanne  a  Umbertide e Montone, il gruppo Cai Rocchi a Pietralunga.  C’era poi qualche gruppo autonomo, come quello di San Benedetto vicino a Umbertide.

Il territorio montuoso rendeva difficili le comunicazioni e frazionava l’iniziativa militare: da un lato uno scarso collegamento interno alla brigata, dall’altro un rapporto difficile con il Comitato di liberazione provinciale di Perugia che già per parte sua aveva una vita assai precaria. Malgrado questi limiti, la brigata fece diversi assalti ai presidi della Guardia repubblicana e sabotaggi alle linee di comunicazione, fu coinvolta in vere e proprie battaglie contro tedeschi e fascisti: le più note sono la battaglia di Serramaggio vicino Cantiano il 25 marzo, la battaglia di Montone a fine aprile e quella di Citerna di Scalocchio.

Nei giorni del Primo maggio fu protagonista della breve esperienza della “zona libera” di Pietralunga – l’altra in Umbria fu quella di Norcia-Cascia. Conosciamo tutti le luminose figure legate a queste vicende, come quella di Venanzio Gabriotti fucilato da un plotone di fascisti repubblicani dopo la sua partecipazione al Primo maggio, e quella del sottotenente Aldo Bologni ucciso nella battaglia di Montone.

Ora, celebrando il Settantesimo anniversario, dobbiamo chiederci che cosa significa tornare a riflettere su quella storia, ora che quasi tutti i protagonisti sono scomparsi, e che il testimone passa alle nuove generazioni. In una parola, quale è l’attualità della Resistenza?

Negli anni recenti c’è stato un ripensamento critico, alla ricerca del senso  di quella stagione straordinaria, fuori dalla retorica e dalla mitologia. Tale  ripensamento ha indagato sulle dinamiche interne, sulle cosiddette “zone d’ombra”, sulle debolezze e sugli errori. Si è cioè guardato alla Resistenza come a un fatto storico e non più come a un mito avulso dalla storia d’Italia, la si è vista come l’esito di un ventennio di dittatura che aveva portato alla guerra perduta e al disastro, come un difficile passaggio, attraverso la guerra civile, verso la democrazia e la ricostruzione materiale e morale del Paese. Prendendo coscienza delle responsabilità e del consenso degli italiani al fascismo, il valore storico e morale della Resistenza stava proprio nella sua difficile ricerca di nuove coordinate morali e politiche per fondare la democrazia nel dopoguerra.

La caduta del Muro di Berlino e la crisi della cosiddetta Prima repubblica hanno favorito il superamento di una storiografia politica e militare centrate sull’ideologia per fare spazio anche ai conflitti interni alle brigate, conflitti spesso legati proprio alle diverse prospettive del dopoguerra, ai difficili rapporti con la popolazione civile specialmente in relazione alle rappresaglie tedesche e a quella che sarà la memoria divisa e antipartigiana.

Dunque, il valore storico della Resistenza sta proprio nel superamento del suo mito e nell’esame dei difficilissimi problemi che i resistenti dovettero affrontare. Con alle spalle vent’anni di dittatura e dentro una guerra devastante e perduta, essi si misurarono con quella che Claudio Pavone ha chiamato la moralità nella Resistenza. I problemi, gli errori, le divisioni, le zone d’ombra fanno comprendere quella fase tanto quanto i sacrifici e le conquiste che l’hanno contrassegnata.

Penso che il settantesimo sia l’occasione per riflettere su tutto questo, come questione da porre all’attenzione delle nuove generazioni: la brigata San Faustino e l’attualità della Resistenza per comprendere meglio i problemi della democrazia oggi. E certamente la vicenda della San Faustino offre molti spunti di riflessione. Vediamone alcuni.

La principale questione era quella della responsabilità, già all’inizio, nella scelta di fare il partigiano. Per chi era cresciuto sotto il fascismo, fu quello il primo momento di autonoma decisione. E non fu affatto facile. Ne parla Settimio Gambuli del gruppo Montebello. Per sottrarsi alla chiamata alle armi, prima di partire per la montagna, Gambuli chiedeva consiglio ai vecchi di Città di Castello. Ma gli rispondevano: «Sono tempi duri, con i fascisti no, ma ognuno deve decidere da solo, ne va della vita». Quella scelta era doppiamente difficile perché poteva comportare la rappresaglia fascista sulla propria famiglia. E infatti quell’inverno decine di famigliari di renitenti e disertori furono portati nelle carceri di Perugia. Fu questo il dramma di Raffaele Mancini che si sentiva colpevole per l’arresto del padre, e pensava di essere fuggito «di fronte alle [sue] responsabilità morali». E scrive: «Questi sono momenti terribili per l’esistenza di un uomo, quando il dovere, l’opportunità, la vigliaccheria, la ribellione, si mescolano insieme e non si riesce più a capire che cosa si deve fare o perché si fa una certa cosa. E dentro rimane un’amarezza profonda, un senso di scontento, un abbattimento dal quale è difficile venir fuori».

Il rifiuto del fascismo passava dunque attraverso un’assunzione di responsabilità personale che poi diventerà tutt’uno con la responsabilità politica nell’attività partigiana, anche come responsabilità verso il nemico, verso le spie, come nel famoso caso della ballerina Maria Keller, verso i fascisti e i tedeschi catturati. Su questi aspetti si misurava la giustizia partigiana e spesso era decisivo l’intervento dei parroci della brigata.

Il trattamento dei prigionieri di guerra è centrale per comprendere il dramma di una scelta che voleva prefigurare il dopoguerra. Non proteggere il prigioniero era accettare la disumanizzazione del nemico e la violazione del diritto internazionale che sistematicamente praticavano i tedeschi. Le Convenzioni internazionali  e lo stesso Codice penale militare di guerra obbligavano a trattare i prigionieri «con umanità». Connessa con il problema della violenza questa fu una delle principali questioni dibattute nella guerra partigiana, questione di sostanza e non solo formale. Nel volume A Gaeta a far gavette ne parla ancora Gambuli. Il  gruppo Montebello un giorno fece prigioniero un tedesco, un caporalmaggiore della Wermacht. «E qui  - scrive Gambuli - sorse il problema di cosa farne. Ucciderlo come facevano loro se prendevano un partigiano? La decisione fu negativa all’unanimità». Lo misero a lavorare in cucina. Un pomeriggio vennero gli uomini del battaglione Stalingrado della V Garibaldi Pesaro, quasi tutti montenegrini. Vedendo il tedesco dissero «È un tedesco. Loro ci uccidono. I partigiani non possono trascinarsi dietro i prigionieri, troppo pericolo». «Sì, ma noi non uccidiamo a freddo, è prigioniero e basta […] per noi un prigioniero è sacro». Aggiunge Gambuli: «La guerra è davvero anche il rischio di agire mossi dalla sacrosanta esigenza di difendersi da un nemico feroce per finire con l’usare gli stessi metodi, per compiere le stesse nefandezze. Gli uomini di Montebello s’erano proposti di non scendere sul terreno del nemico, di mantenere integri quegli ideali per cui combattevano quella difficile lotta, di rifiutare sempre la violenza ove non fosse stata necessaria».

La questione potrebbe essere formulata in questi termini: se, combattendo i tedeschi, si voleva prefigurare una più giusta civiltà nel dopoguerra, si potevano sospendere dentro la guerra i diritti umani rinviandoli al dopo? La necessità di sconfiggere Hitler poteva fondarsi sulla negazione dei diritti umani? Non occorreva, invece, recuperare anche la guerra alla sfera del diritto e degli obblighi umanitari? Saranno questi i problemi di fondo affrontati poi dal diritto internazionale sotto le dizioni di «crimini di guerra» e «crimini contro l’umanità». Perché non è sufficiente parlare della pace per rendere migliore l’umanità, occorre farlo anche dentro la guerra, anzitutto limitando i danni verso la popolazione civile. E questo è un problema di indubbia attualità. Basta guardare all’Ucraina e al Medio Oriente.

La questione della responsabilità dei resistenti verso la popolazione civile derivava dal fatto che i tedeschi, in nome della responsabilità collettiva, assimilavano le popolazioni locali ai partigiani e ne facevano il primo bersaglio della guerra antibande. I grandi rastrellamenti della primavera furono una risposta all’attività partigiana e presero di mira la popolazione inerme. 57 persone furono fucilate sul posto nel rastrellamento del 27 marzo,  ai primi di maggio vi furono altre vittime e la chiesa di Morena fu incendiata. Anche se ci sono molte testimonianze sull’aiuto dato dai contadini ai profughi dopo l’8 settembre e sul loro appoggio ai partigiani, è fuor di dubbio però che dopo il rastrellamento di maggio quell’appoggio si interruppe. Racconta  don Marino Ceccarelli che «ovunque si trovava diffidenza anche nel  dare il  vitto,  dopo tanto spavento al passaggio tedesco».  I partigiani  in quei giorni «si cibarono di  foglie di albero, di qualche tozzo di pane a loro gettato dagli  spaventatissimi contadini e bevvero l'acqua dei fossi [...]». Anche il capitano Pierangeli parla di quei giorni come di un «periodo  di  gravi  sacrifici e sofferenze».

Era dunque molto alto il prezzo che si pagava per la conquista della libertà, sia dai parte dei civili che dei partigiani e scarso era in quei primi mesi l’aiuto degli Alleati. Questo ci fu, grazie alla mediazione del console Orebaugh, con l’aviolancio nella notte del 1° maggio, per dividere il quale il gruppo comunista di Cantiano e quello di Morena si affrontarono con le armi in pugno.

Dunque, il rapporto con gli Alleati ci porta dentro un’altra questione, quella dei dissensi interni al movimento partigiano e alla San Faustino. È questo un punto molto interessante perché da un lato rappresentava una debolezza, ma dall’altro lato era anche una forza dovuta alla pluralità delle posizioni politiche, e tale scenario superava il fascismo e prefigurava la dialettica politica del dopoguerra. In definitiva la San Faustino fu un punto di convergenza e di divergenza tra diverse forze politiche e culturali: quella laica e liberale legata alle tradizioni del prefascismo, quella cattolica e del popolarismo rafforzata dalla presenza di diversi parroci, e quella social-comunista, formatasi attraverso la memoria famigliare e la clandestinità.

Aumentando gli effettivi dalla primavera anche la composizione politica era cambiata rispetto  all’originario  nucleo  liberale. Si formò  un  orientamento in maggioranza comunista, ma vi erano anche  socialisti, azionisti, democristiani e diversi indipendenti. A causa del mutato profilo politico nella primavera  fu aggiunto al nome "1ª Brigata  Proletaria  d'Urto"  anche se, di fatto, la San Faustino rimase tale per molti  combattenti.   

Al centro dei dissensi interni vi fu allora l'invio da parte del CLN provinciale di un commissario politico nella persona del comunista Dario Taba, affiancato da  Riccardo Tenerini. Il commissario politico era una figura ereditata dalle brigate garibaldine in Spagna. Oltre a Taba, nella San Faustino avevano fatto la Spagna anche altri: Giulio Baciotti che, arrestato dalla Gnr, denunciò Bonucci e altri eugubini provocandone l’arresto; Vincenzo Bernardini e Cosimo Bellanti tutti e due di Pietralunga. Il medesimo Taba riferiva di aver incontrato da parte del comando forti resistenze alla sua presenza e che tra gli ufficiali e gli uomini vi era molta diffidenza.

Acuendosi il conflitto politico tra  la vecchia dirigenza liberale "badogliana" – legata  al gruppo di Morena – e la  componente comunista, si ebbe la  secessione  di una decina di comunisti guidati da Samuele Panichi, che aderirono  alla  V Garibaldi Pesaro.

Tra di essi vi  erano  gli eugubini Gustavo Terradura-Vagnarelli e le figlie Walchiria e Lionella, e il perugino Italo Vinti.

I dissensi ideologici nella brigata sono sottolineati soprattutto dalle memorie di don Marino Ceccarelli e don Paolo Nardi. Però bisogna sottolineare che quei dissensi ideologici avevano un corrispettivo sociale, come si diceva una volta avevano “un fondamento di classe”.  Se i liberali che avevano fondato la San Faustino appartenevano alla classe dei proprietari terrieri e dei professionisti, la maggior parte dei giovani entrati nella primavera erano artigiani, operai e soprattutto contadini. È esemplare in questo senso il fatto che i 15 giovani contadini comunisti del gruppo di San Benedetto rifiutarono di aderire alla San Faustino. Essi dicevano: “Sì, Bonucci va bene, ma Bonucci è sempre il padrone. Ha organizzato la Resistenza perché vuole mantenere i suoi privilegi. Noi, a fa’ a schioppettate per i padroni, non ci veniamo!”.

Ebbene quei giovani ponevano una questione non peregrina, quella di quali fossero gli obiettivi sociali della lotta partigiana e di quale dovesse essere l’assetto sociale dell’Italia post-fascista. Una questione che sarebbe esplosa nelle lotte contadine del dopoguerra, nel loro sostanziale fallimento e nell’abbandono delle campagne. Ma, anche oggi che il mondo contadino è scomparso, il problema della disuguaglianza sociale è più che mai all’ordine del giorno, perché è chiaro che non può esserci democrazia nella disuguaglianza né può esservi la pace. E, infatti, come vediamo ogni giorno, c’è la guerra.

Un’altra questione problematica che sarebbe tornata nel dopoguerra era quella dei rapporti con Perugia. Al passaggio del fronte, la diffidenza politica e la distanza sociale degli uomini verso i comandi sfociò in un fatto clamoroso. A giugno, quando arrivò l’ordine del Cln provinciale di marciare su Perugia per anticipare gli Alleati nell’arrivo in città, il gruppo di Pietralunga non solo si dichiarò contrario ma si ammutinò. Fu allora circondato dagli altri uomini con le mitragliatrici spianate e fu disarmato. Poi l’ordine fu revocato e ciascun gruppo scese a liberare il proprio paese. Ma quel rifiuto di marciare  su Perugia dette luogo a forti polemiche politiche sulla debolezza del Cln provinciale e sul fatto che, non trovando i partigiani in città, gli Alleati nominarono ai posti di comando – sindaco, prefetto, questore –  tutti esponenti liberali. Certo, la vicenda mostra le spinte municipalistiche presenti anche nella Resistenza, ma ribadisce anche la distanza sociale, politica e culturale tra il capoluogo regionale e i centri minori, una distanza che affondava le radici assai lontano nel tempo, ben oltre la fase resistenziale. È poi stata superata quella distanza? Certo è che ancora oggi è difficile parlare di una identità regionale.

In definitiva, la storia dei conflitti interni alla San Faustino contiene un insegnamento assai utile per la democrazia oggi. Malgrado i dissensi, la brigata fu unita nella lotta contro il nazifascismo, così come i padri costituenti superarono le divisioni e trovarono la mediazione tra cattolici, socialcomunisti e liberali. L’insegnamento è che la democrazia consiste nel dissenso, nel confronto, che l’unità non vuol dire unanimismo. Come allora, anche oggi non ci sono scorciatoie. Allora la guerra era perduta e la rivoluzione, ammesso che fosse auspicabile, era comunque impossibile.

Oggi una devastante crisi economica, sociale e morale, combinata con la rivoluzione tecnologica, rischia di distruggere i fondamenti e il valore dell’eguaglianza e della giustizia sociale.

Per questi motivi penso che si impari più dai problemi della Resistenza che dal suo mito, e che oggi come allora la questione democratica comincia, come fecero i resistenti, con il prendersi ciascuno le proprie responsabilità, per costruire un mondo migliore.

                                                              

                                                       

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