di Maria Pellegrini

 

Disponiamo pochi dati biografici di Saffo, la prima voce della poesia occidentale: è nata tra il 640 e il 630 a. C. a Ereso o Mitilene, importanti città di Lesbo, isola dell’Egeo considerata culla della poesia e del canto fin dai tempi antichi; era di famiglia aristocratica, ebbe un marito, una figlia e tre fratelli, fu costretta all’esilio in Sicilia per l’avvento di un tiranno nella sua città e visse fino a tarda età come si legge in un suo frammento. Si tratta di un personaggio femminile «dalla voce possente che ha attraversato i secoli giungendo a far vibrare ancora oggi i nostri cuori al tocco essenziale e profondo dei suoi versi»: così si legge nell’Introduzione dell’agile volume “Saffo” di Luca Mori, una pubblicazione che fa parte della collana del Corriere della sera “Grandi donne della storia” a cura di Barbara Biscotti. 

I suoi versi furono ordinati dai grammatici alessandrini in nove libri, ma a noi ne restano pochi: una sola ode intera, una mutila e circa duecento frammenti più o meno brevi.

 

«Saffo dai capelli di viola, veneranda, dal dolce sorriso», così la descrive il poeta Alceo, suo contemporaneo. Platone la chiama «Saffo la bella» tanto grande è l’incanto dei suoi versi da essere ritenuti di origine divina. Strabone, nella “Geografia”, segnala che Mitilene ha dato i natali a uomini famosi ma anche a Saffo e aggiunge che «in tutta la storia trascorsa non si ha notizia di una donna che possa starle, neanche lontanamente, alla pari per la sua poesia». In un epigramma dell’“Antologia Palatina” è ricordata come «decima musa». È una delle pochissime poetesse del mondo antico i cui versi tutt’oggi, a tanti anni di distanza, continuano a incantare.  Il consenso unanime della critica di ogni età ne ha fatto una delle voci più pure della poesia mondiale.

 

Il fulcro della vita e dell’attività poetica di Saffo è l’ambiente del tiaso, una comunità femminile da lei diretta in cui le ragazze di famiglie facoltose «venivano accompagnate nel delicato passaggio della pubertà e preparate al matrimonio vivendo così come in una sfera intermedia e sospesa tra la casa paterna e quella dello sposo». Saffo non le considera sue alunne ma “ministre delle Muse”, infatti fanno esperienza delle loro arti. Come attestano alcuni frammenti, esse imparano la danza, il canto, ma anche a essere testimoni di Afrodite, desiderabili, capaci di muoversi con grazia, di cospargersi di profumati unguenti, ornarsi di corone, prepararsi alle gioie dell’amore.

Preziosa testimone della cultura aristocratica della sua isola, Saffo è ispirata dall’amore, forza per lei incondizionata, irrinunciabile e irresistibile. Il tiaso è il luogo di innamoramenti ed Eros può manifestarsi con la sua forza travolgente in presenza della persona amata. Nell’ode ad Afrodite, l’unica arrivata con testo integrale, Saffo invoca la dea chiedendole di essere sua alleata e di non irretirla in un amore infelice:

 

«Vieni a me anche ora e liberami dai tormentosi affanni / e tutto ciò che il mio animo brama fa’ che per me si avveri, / avveralo tu, e tu stessa sii la mia alleata».

 

Pochi poeti hanno sentito come lei, la violenza, la potenza e il dramma dell’amore, ed essere stati capaci di esprimere in modo così drammatico e diretto l’angoscia, la malinconia, l’abbandono, il rimpianto di un affetto perduto. Talvolta con un solo verso Saffo esprime la complessità e la forza del sentimento amoroso:

 

«Eros ha squassato il mio cuore, come raffica che irrompe sulle querce montane».

 

L’amore è dunque una forza elementare della natura, paragonabile alle raffiche di vento che si insinuano dirompenti tra le querce sulle montagne.

In un lungo frammento di un’altra ode, imitata e quasi tradotta sei secoli dopo dal poeta latino Catullo, Saffo registra con lucidità e precisione le sofferenze psichiche e fisiche della passione d’amore. Siamo nel tiaso. Di fronte a lei c’è una ragazza che parla dolcemente e ride, è seduta accanto a un uomo. La scena turba il suo cuore che sussulta, è in uno stato psicologico complesso e confuso in cui desiderio, attrazione, amore e gelosia si confondono:

 

«Mi sembra pari agli dei quell’uomo che siede di fronte a te e vicino ascolta te che dolcemente parli / e ridi un riso che suscita desiderio. Questa visione veramente mi ha turbato il cuore nel petto: appena ti guardo un breve istante, nulla mi è possibile dire, / ma la lingua mi si spezza e subito un fuoco sottile mi corre sotto la pelle e con gli occhi nulla vedo e rombano le orecchie, / e su me sudore freddo si spande, e un tremito mi afferra tutta e sono più verde dell’erba; e poco lontana da morte sembro a me stessa. Ma tutto si può sopportare…» (l’ode è mutila).

 

Questo è il frammento più noto di Saffo, conservato nell’anonimo trattato “Sul sublime”. Caratteristica distintiva di Saffo secondo il nostro poeta Foscolo, che si era cimentato nella traduzione dei versi della poetessa, è - come suggerisce Mori - «proprio la capacità di esprimere passione, sensualità e persino furore attraverso la poesia, più di quanto abbiano fatto altri grandi cantori dell’amore nei secoli successivi».

 

Ai valori del mondo maschile Saffo contrappone l’oggetto di ciò che il proprio cuore desidera, come si legge in un frammento:

 

«Alcuni dicono che sulla terra nera la cosa più bella /sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri di navi, io invece, ciò di cui uno è innamorato». / Ed è facilmente facile farlo intendere a chiunque perché colei che di gran lunga superava in bellezza ogni essere umano, Elena, abbandonato il suo sposo impareggiabile / traversò il mare fino a Troia, né si ricordò della figlia e degli amati genitori, ma tutta la sconvolse Cipride innamorandola».

 

Nei suoi versi Saffo porta a esempio di ciò che lei considera “la cosa più bella” il mito di Elena, l’incarnazione del bello e dell’amore (i due valori cardini secondo Saffo).  La sua passione per Paride, l’oggetto del suo amore, è tanto forte da spingerla ad abbandonare il valoroso marito Menelao, la figlia, i genitori, ma questo sentimento non viene presentato come nato liberamente, bensì come una forza ineluttabile imposta dalla dea Afrodite, chiamata anche Cipride perché si diceva fosse nata nelle acque dell’isola di Cipro dove, per questo, era oggetto di culto. Mentre la tradizione condanna Elena, la poetessa di Lesbo la riabilita perché è stata travolta dalla forza suprema della passione, ispirata dalla dea dell’amore.

Saffo si mostra controcorrente, ci presenta l’esempio di Elena: per lei non hanno alcuna importanza fanti o cavalieri né il valore guerriero che l’epica ha tanto esaltato, contano i propri sentimenti.

 

Mori dedica diverse pagine alla figura di Elena, e al dibattito sulla sua colpevolezza o innocenza, oggetto di numerose prese di posizione nella letteratura del mondo antico. Affiora già nell’“Iliade”. Nel III libro troviamo Priamo ed Elena sull’alto della torre delle porte Scee che si affacciano sulla pianura del campo di battaglia dove sono schierati i più grandi eroi greci. Gli anziani che ormai non combattono più, sono all’interno delle mura presso la torre. Alla vista di Elena:

 

«a bassa voce l’un l’altro dicono parole fugaci: / ‘Non è vergogna che i Teucri e gli Achei dai robusti schinieri per una donna simile soffrano a lungo dolori: / terribilmente, a vederla somiglia alle dee immortali! / Ma pur così, pur essendo sì bella, vada via sulle navi, / non ce la lascino qui, danno per noi e per i figli anche dopo’».

 

Priamo non si unisce al coro dei rimproveri, anzi invita Elena a sedersi accanto a lui e la conforta:

 

«non tu sei colpevole davanti a me, gli dèi son colpevoli; / essi ti han mosso contro la triste guerra dei greci».

 

La domanda se Elena dev’essere ritenuta colpevole o innocente – ricorda Mori – se la pose anche un filosofo greco di Sicilia, Gorgia da Lentini, celebre sofista, nella sua opera “Encomio di Elena”, con queste riflessioni: se si giunge alla conclusione che Elena, travolta dalle circostanze, non è colpevole, se ne può dedurre che gli esseri umani non sono meritevoli di biasimo per le cattive azioni che commettono, né, per la stessa ragione, di lode per quelle buone perché non sono dotati, in altre parole, di libero arbitrio.

Gorgia da Leontini nella sua difesa di Elena scritta (stando alla sua dichiarazione conclusiva) come semplice esercizio retorico, pose però un problema sul quale si sono occupati filosofi come Platone e Aristotele, e storici e retori giudiziari, cioè si domanda:

 

 «Esiste una responsabilità morale addebitabile all’uomo se ogni sua azione è governata da forze a lui superiori?»

 

Il processo fittizio alla bella adultera, è per Gorgia un pretesto per esaminare il problema dalle sue varie angolazioni, ma anche per sfoggiare la capacità di manipolare le menti del pubblico e dimostrare la potenza della parola e fino a che punto un buon oratore possa non solo commuovere, ma anche suggestionare chi ascolta e influenzarne il giudizio. Infine Gorgia si mostra incline a considerare l’Amore, una forza contro cui non si può lottare, e aggiunge che se una persona cade in sua preda, è evidente che non ci si può aspettare da lei saggezza, prudenza o rispetto delle regole morali e sociali, dunque non ha colpa.

 

Mori riflette anche sui molti aspetti del mondo greco del VII-VI sec. a. C. che rivive nelle sue pagine, si sofferma a inquadrare l’orizzonte culturale in cui nasce la poesia di Saffo e sulle rappresentazioni della donna circolanti in quel tempo per apprezzare la novità dei suoi versi. Descrive l’atmosfera del tiaso dove regna il culto delle Muse e di Afrodite, e dove si alternano momenti di gioia ma anche di tristezza nel momento del congedo o dell’abbandono di qualche ragazza come in questo frammento nel quale Eros si presenta sotto l’aspetto di creatura dolceamara e invincibile, contro la quale gli umani non dispongono di alcun mezzo di resistenza:

 

«Di nuovo mi assilla Eros che scioglie le membra, dolceamara invincibile creatura, / ma tu, o Attis, ti sei stancata di me e voli verso Andromeda».

 

La lirica e la personalità di Saffo hanno particolarmente affascinato i poeti romantici e decadenti, che di lei hanno preferito cogliere il lato più introspettivo, inquieto e sofferente. Ciò che ha portato il Romanticismo a privilegiare la poetessa di Lesbo tra tutti gli altri lirici greci, è stato probabilmente il fatto che ella più di ogni altro aveva saputo trattare il sentimento amoroso con una profonda partecipazione interiore.

 

Grande merito di Mori è non aver insistito sull’omoerotismo di Saffo che a quei tempi non era considerato una devianza, ma universalmente ammesso dalla società. L’amore di cui scrive Saffo non conosce differenze di genere ed è innescato dalla bellezza. Troppo a lungo si è insistito con pregiudizi moralistici - senza considerare che siamo in epoche distanti nel tempo e in culture inevitabilmente diverse dalla nostra - sul tiaso da lei fondato per educare le fanciulle al culto delle Muse e sugli strani dolci amori che là fiorivano. Ma non bisogna dimenticare che proprio in quel luogo privilegiato nasceva una poesia unica, struggente e di rara bellezza.

Condividi